Broken City - La Recensione

In un periodo storico come quello che stiamo vivendo dire che la politica è fatta da gente corrotta, interessata solo ai fatti propri, e senza alcun rispetto per la classe dei più deboli, equivale come a non aver detto nulla. Al cinema, ovviamente, questa faccenda viene addirittura amplificata. Chi ha avuto, per esempio, l'intelligenza, e il piacere, di aver visto "Le Idi di Marzo" di George Clooney - e chiaramente tanti altri titoli prima di quello - si è abituato, per forza di cose, ad aspettarsi dai thriller politici un livello di storia e di sceneggiatura piuttosto alto ed avvincente e va da sé allora che chiunque abbia intenzione di portare sullo schermo un lavoro che aspira a tuffarsi in un genere come questo deve fissarsi, oggi, anche l'obbligo di non sfigurare verso un confronto al quale inevitabilmente non può tentare di sfuggire.

Il "Broken City", diretto da Allen Hughes ad un primo, velocissimo, impatto è bravo a fingere che un pezzettino di quel ragionamento, magari sbadatamente, deve averlo eseguito in maniera scrupolosa, più precisamente lo spicchio legato alla scelta del cast, il quale dovrebbe essere composto da attori di buono o, se possibile, ottimo livello, meglio se con nomi riconosciuti dal pubblico. Ma tralasciare i dettami fondamentali, quelli senza i quali non si può fare a meno, e che costituiscono le basi più solide, in casi come questo è un errore che non ci si può permettere di fare, perché altrimenti, la conseguenza potrebbe essere quella di avere a disposizione i nomi di Russell Crowe, Mark Wahlberg, e Catherine Zeta Jones e nemmeno una valida sceneggiatura che sappia risaltarne presenza e doti, aggravando pertanto le sorti di un progetto dal deragliamento annunciato.

Quando un thriller, a prescindere dal suo sfondo, non può contare neppure sulle sue caratteristiche principali - che sono quelle di coinvolgere e incollare alla poltrona fino alla risoluzione degli intrighi - la sfida è da considerarsi già perduta in partenza. E “Broken City” deve portare questo grosso peso sulle spalle: l’incapacità di interessare lo spettatore agli eventi che sta raccontando. Quella di Hughes è una pellicola onesta, che si lascia vedere senza toccare le paludi della noia, ma mai, in nessuna circostanza, sa creare situazioni o cambi di ritmo capaci di adescare lo spettatore oltre il minimo sindacale. Il complotto organizzato, per quanto intricato, evidenzia inoltre un messaggio vecchio, quello di una politica sempre più meschina e ingrata al popolo, nulla però rispetto a quanto non sia di nostra conoscenza. La figura di Wahlberg invece è una irregolarità bella e buona - un detective col vizio della giustizia che pur di compiere la sua professione, e salvare il paese, sceglie di sacrificarsi – e probabilmente incarna la caduta maggiormente grave di un appello all'onesta tanto banale e inefficace.

Ribadire un male che sappiamo è, di per sé, già uno spreco di tempo e forze ma tentare di volerlo guarire nel modo più semplice possibile e, per questo, improbabile, diventa addirittura uno sforzo ridicolo. Hughes perde l’occasione di sviluppare un soggetto originariamente buono, dislocandolo in un territorio dove può solo perdersi tra i meandri dell’ovvio e del superfluo. Seconda chance sprecata dopo “Codice Genesi” (ma stavolta senza l’aiuto del fratello) e manipolata talmente male da far avvistare Mark Wahlberg un attore migliore di Russell Crowe.

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