Gangster Squad - La Recensione

Ruben Fleischer è una persona che il cinema ha dimostrato di conoscerlo abbastanza, e sa benissimo quanto sia difficile al giorno d'oggi fare un gangster movie fresco ed originale. Ma Ruben Fleischer è una persona anche molto intelligente e furba, per cui non dimentica da dove viene e sa perfettamente dove vuole arrivare.
Così, dopo aver eseguito un lavoro memorabile e sorprendente con "Benvenuti a Zombieland" e aver aiutato Jesse Eisenberg a scrollarsi di dosso l'ombra di Mark Zuckerberg con il successivo "30 Minutes or Less" (da noi passato in sordina) con "Gangster Squad" cerca di realizzare un gangster movie alla sua maniera, senza prendersi troppo sul serio e divertendosi a dirigere un cast di stelle su cui spicca, prepotentemente, uno Sean Penn sanguinario e sopra le righe.

Va da sé allora che il DNA della pellicola poteva (e doveva) essere prevedibile, in perfetta coerenza coi precedenti lavori eseguiti dal regista, ed infatti già dalla prima scena si riconoscono immediatamente gli affascinanti e adorati rallenti, meticolosamente dosati e controllati, mai fastidiosi o prolissi come quelli utilizzati dal collega Zack Snyder. Perché la destrezza di Fleischer sta tutta nel conoscere fino in fondo il genere che sta sviluppando, rispettarlo al massimo in tutti i suoi elementi distintivi e manipolarlo sapientemente mentre gli restituisce quel tocco moderno e accattivante, tipico di chi cerca di lasciare una propria impronta. Diventa perciò una storia molto classica quella presentata da "Gangster Squad", quadrata, fatta di colpi di scena derivati da soluzioni narrative già adoperate e priva di qualsiasi deviazione che porti con sé il rischio di far deragliare il treno giù dai binari. La marcia in più, difatti, è elargita solamente da questo gruppo di incorruttibili, poliziotti ribelli, aggregati da una causa comune ma che ogni tanto si lasciano andare a colpi di testa egoistici, battute ad effetto, e trovate spassose capaci di dar vita a piccole situazioni comiche in grado di strappare oltre che una risata.

Ferisce abbastanza quindi la scivolata sulla buccia di banana che la sceneggiatura - scritta da Will Beall - si concede intorno a metà narrazione, davvero evitabilissima per altro. Non si spiega come ci si possa lasciar sfuggire un errore talmente piccolo - riparabile addirittura con una sola battuta - ma dagli effetti collaterali immensamente grandi. Da questo punto in poi la pellicola subisce inevitabilmente un calo, si abbassa di credibilità, nonostante sappia riprendere poi immediatamente le redini e tornare dritta all'azione coatta e impulsiva. Ciò che viene dopo è ordinaria amministrazione, incapace di recuperare quell'andamento pressoché perfetto che la pellicola portava in precedenza, ma ottima per accompagnare il processo di finalizzazione verso una degnissima chiusura.

Voleva realizzare il suo personale "The Untouchables" Ruben Fleischer, caratterizzando il malavitoso Mickey Cohen su uno Sean Penn che sembra uscito da un frullato tra Jake LaMotta di “Toro Scatenato” e l'Al Capone che Robert De Niro interpretava proprio in quel titolo. Possiamo dire che l'operazione gli stava quasi per riuscire, con un peso specifico diverso magari, ma ugualmente piacevole. Lo smarrimento in un bicchiere d'acqua chiaramente non ha aiutato a vincere la causa e, alla fine, il piano perfetto deve accontentarsi di un bottino che è un po’ una via di mezzo tra operazione parzialmente compiuta e fallimento.

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