Il Grande e Potente Oz - La Recensione

Con "Drag me to Hell" era tornato agli antipodi, a fare ciò con cui avevamo imparato a conoscerlo, voltando del tutto pagina da "Spider-Man 3" e mostrando - a chi aveva iniziato a sospettare qualcosa - di essere ancora quel Sam Raimi che circa trent'anni fa si faceva largo nel grande cinema attraverso l’horror-splatter-ironico. Eppure leggere un'altra volta il suo nome alla regia di un blockbuster come "Il Grande e Potente Oz" non ci stupiva affatto, ma anzi gettava riflessioni su come il regista de "La Casa" avesse affrontato nuovamente, e stavolta senza contrasti produttivi, una nuova mirabolante avventura.

Dai titoli di testa, le musiche di Danny Elfman e il bianco e nero perfezionato da un formato in quattro terzi, "Il Grande e Potente Oz" somiglia più a una pellicola di Tim Burton, quella del riscatto magari, spuntata dopo il difficile e non completamente apprezzato "Alice in Wonderland" di qualche anno fa. Ma invece, se proprio di una rivincita dobbiamo discutere, questa c’è solo in casa Disney, che affida a Raimi una pellicola dal sapore fantasy e con cui il regista fatica a tenere a bada il suo estro, manifestando - in un paio di occasioni - come avrebbe voluto in realtà scatenarsi e prendersi il rischio di scentrare un progetto che invece era piuttosto assettato per uno scopo precisissimo. Perché la pellicola con protagonista James Franco - e non lo scartato Robert Downey Jr, peccato - è scritta su misura per un pubblico di bambini, quelli accompagnati al cinema dai genitori, e pertanto deve centellinarsi e censurarsi da quelle che potrebbero essere scene troppo paurose o spaventose, ma che però ad un pubblico di altra fascia (e soprattutto a Raimi) piacerebbe immensamente vedere e subire non appena se ne scorge la possibilità.

E' automatico allora che sebbene l'impronta di Tim Burton con il procedere sparisca, e lasci nitida quella dell’autore originale, "Il Grande e Potente Oz" comunque oscilla tra ciò che vorrebbe e ciò che, viceversa, può fare, una doppia personalità che non solo si rispecchia con il conflitto del suo personaggio principale, ma che inoltre - durante i suoi schizofrenici scambi - sa saldamente persuadere, lasciando magari leggermente delusi soltanto nel corso del frangente di chiusura, dove l'importanza di concludere il racconto ha la meglio su qualsiasi fisionomia di narrazione. E’ decisamente l'equilibrio, dunque, il fattore più sregolato, mentre scenograficamente il mondo fantastico e magico ricostruito in digitale, risulta solido e stupefacente, tanto da rimanerne incantati e mai infastiditi nonostante l'uso del 3D, stavolta valido e non sprecato.

In questa maniera allora Sam Raimi compie il suo prequel del celebre film di Victor Fleming nell'esatto modo in cui gli era stato commissionato, non riesce a mettere in piedi quella sorta di “Avatar” che potenzialmente era possibile ricavarne, ma concedendosi qui e là qualche libertà registica e facendo felice un pubblico misto estrae dal cilindro una favola straordinaria in cui anche i piccoli significati sanno assumere dei valori smisurati.

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