Orecchie - La Recensione

Orecchie Daniele Parisi
Un fischio alle orecchie e l’invito al funerale di un amico il cui nome gli è sconosciuto. Comincia così la giornata di Daniele Parisi, l’esordiente protagonista di “Orecchie”, supplente precario di Storia e Filosofia con una relazione sentimentale che, forse, è precaria anch'essa: come gli fanno notare, gentilmente, le due suore porta a porta, mattiniere, che gli si infilano in casa con l’intento di sensibilizzarlo alla parola di Dio. Risveglio quanto mai assurdo e destinato ad aumentare, nonché a peggiorare nelle proporzioni, il suo, con dottori chiamati in causa, ma in vena di presunzione e di scherzi e altri incontri improbabili che vanno a costituire (e a costruire) un po’ quel mondo distorto, abitato da mostri, da cui il protagonista, scopriamo, ha preferito estraniarsi il più possibile, chiudendosi spesso tra le mura di casa.

Vuole raccontare il disagio e l’alienazione moderna infatti il regista Alessandro Aronadio, la difficoltà di vivere in un tempo in cui il surreale sembra più reale che mai, dove le certezze non esistono più e la cultura, l’arte e le sue disparate forme hanno assunto lo stesso carattere strambo ed insensato delle persone che dovrebbero usufruirne. È capovolta allora la Roma del suo protagonista, asciugata dai colori brillanti che la contraddistinguono e rilegata ad un bianco e nero che gli sta a dir poco stretto, così come è stretto anche il formato iniziale in 4:3 della pellicola che in lentissima crescita si allargherà, poi, fino a rientrare nei 16:9 canonici poco prima dell’arrivo dei titoli di coda. Una scelta stilistica, evidentemente, volta a rappresentare quella chiusura e quella piattezza che il personaggio di Parisi ha deciso di concedersi per non cedere ai compromessi e alle accettazioni di un mondo che non gli appartiene e che non capisce, un mondo in cui non ha la minima intenzione di conformarsi, sebbene quel fastidioso e insistente rumore alle orecchie - paragonabile alla spia di una macchina da tenere d’occhio - lo porterà a rivalutare e a comprendere determinate certezze lasciandolo aprire, appunto, come mai probabilmente era riuscito a fare in passato.

Orecchie ParisiDel resto è un film sincero “Orecchie”, si sente, un film in cui l’anima di Aronadio (anche sceneggiatore) riecheggia da capo a piedi, nel suo spirito sornione diviso a metà fra il voler prendere la situazione ironicamente e il denunciare una crisi generale, piuttosto drammatica, sulla quale può esser salvifico abbozzare un pochino, ma guai a decidere di distogliere del tutto lo sguardo. Cammina sul filo del rasoio, insomma, il regista, come fosse un funambolo, attento a non cadere mai né da una parte, né dall'altra, oscillando di rado e mantenendo l’equilibrio a mezz'aria come meglio gli riesce. Peccato, dunque, che tale prudenza non gli permetta di concedersi l’appuntamento con quelle vertigini piacevoli che stavano lì ad aspettarlo sul versante comico, vertigini dalle quali avrebbe potuto ricavare sicuramente risate integrali e un carattere deciso e suadente, che avrebbero messo maggior colore e maggior profondità al suo lavoro, richiedendo, magari, a Parisi di avvicinarsi, attorialmente parlando, ad un surrogato di Valerio Mastandrea, senza però obbligarlo a snaturarsi nella sua personale identità.

D'altronde pendere in favore dell’ironia sarebbe (ed è, alla fine, anche se in forma più trattenuta) stato perfettamente incline con l’insegnamento del suo personaggio, quello secondo il quale non prendersi troppo sul serio è la miglior medicina che abbiamo per rispondere ad un mondo che non solo è l’unico a nostra disposizione, ma che non vale nemmeno la pena di respingere o di odiare. Che a volte sa esser preoccupante, misterioso ed ostinato, ma, a conti fatti, sopportabile e vivibile nel suo complesso.
Un po’ come un fastidioso e indecifrabile fischio nelle orecchie che non ne vuole proprio sapere di eclissarsi.

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