Millennium: Quello Che Non Uccide - La Recensione

Quello Che Non Uccide Millennium
Non c'è più David Fincher. Non c'è più Rooney Mara. Non c'è più neppure Daniel Craig. Ma soprattutto non c'è più quel senso di bomba a orologeria che era stato "Millennium: Uomini Che Odiano Le Donne".
Nelle mani di Fede Alvarez la saga di Lisbeth Salander - hacker micidiale e spietata vendicatrice - si fa più educata e meno sporca; mantiene la cupezza, conserva la sua personalità dark-punk, ma la sensazione è quella di chi all'improvviso è meno ribelle di quanto l'abito possa comunicare.

Una rivoluzione – di casting e di intenti – che ci poteva anche stare, incomprensibile, se calcoliamo la perfezione dell’oggetto prodotto da Fincher, ma non per questo da scartare a priori. E, infatti, non è a priori che la si scarta, bensì a posteriori. Perché quella di volerne fare un franchise sostenibile, uno di quelli orientati a piacere a una fetta superiore di pubblico, e quindi meno ruvidi e anarchici, è una scelta artistica che può solo andare a penalizzare le caratteristiche di una saga come quella ideata da Stieg Larsson, che non a caso finisce con lo standardizzarsi, perdendo la sua spiccata personalità. Certo, mettere un regista meno autoritario e più malleabile come Alvarez – che resta uno dei talenti più interessanti della nuova hollywood – può inizialmente mascherare tale dato di fatto, dare l’idea di voler istituire un nuovo taglio al progetto, però parliamo di una situazione destinata a far cadere la maschera non appena la sceneggiatura di “Millennium: Quello Che Non Uccide” è chiamata a spiegare le sue vele. Lo senti, lo percepisci, a quel punto che la lunghezza dell’onda è inspiegabilmente cambiata. Scesa verso un basso che non ha significato, perché va a depotenziare il carisma di un personaggio che per essere tale ha bisogno di spingere, di sfondare l’acceleratore, di muoversi senza catene. E per quanto possa essere brava Claire Foy, alla sua Lisbeth non è permesso di uscire da determinati confini, il che, oltre a strozzare la sua interpretazione, strozza pure l’intera storia.

Quello Che Non Uccide Fede AlvarezGià, quella che fa un balzo in avanti di tre caselle e – dimenticandosi dei due capitoli mancanti, ufficialmente cassati – si dedica direttamente al quarto, quello dove il passato della nostra protagonista fa capolino riportando alla luce i ricordi di un padre depravato e violento e di una sorella, forse, troppo fragile per eseguire il salto della salvezza che lei pretendeva. Un intreccio che, nel titolo originale, viene giustamente accostato a quello della tela del ragno, che prima di schiarirsi e di sgrovigliarsi, appunto, ti avvolge, incastrandoti prima che tu possa rendertene conto. Ma se tale trappola funziona per le pedine schierate e coinvolte nel bel mezzo della scacchiera, diversamente accade per noi spettatori, che imprigionati all’interno di questa intelaiatura distorta, in pratica, non ci sentiamo mai, anzi, spesso capita persino di uscirne, di poter prendere una boccata d’aria, seguendo gli snodi con una freddezza che, probabilmente, era l’ultima cosa da aspettarsi da un film del genere.

Ed è a quel punto che - per quanto ti dispiaccia, per quanto avresti voluto che non andasse così – ti ritrovi costretto ad ammettere che il naufragio ormai è bello che servito. Cercato, tra l'altro, per cui è ancora più spiacevole. Del resto bastava affidarsi al detto, no? Quello che recita squadra che vince non si cambia
E quella squadra, ahimè (e ahinoi), era praticamente perfetta. Talmente perfetta che bisognava continuare a lasciarla giocare.

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