Gloria Bell - La Recensione

Gloria Bell Julianne MooreC’è Julianne Moore che va in discoteca perché gli piace ballare, ma perché vuole anche rimorchiare. Quando si reca a lavoro, la mattina, in macchina, la vediamo ascoltare e cantare con trasporto musica pop-romantica. Da brava madre, poi, va dai suoi figli e tenta di instaurare un dialogo facendogli sentire al massimo il suo sostegno e l'affetto. Una donna modello, in pratica, con un divorzio alle spalle che vorrebbe archiviare, aprendo un nuovo capitolo amoroso nella sua vita, e lo spettro della vecchiaia che incombe – ci mette il carico persino sua madre – e che sarebbe meglio non affrontare soli.

Come fu per il “Funny Games” di Michael Haneke, anche Sebastian Lelio decide di cimentarsi, allora, nella riproposizione di un suo film cambiandone territorio, scenari e – di conseguenza - tradizioni. Dal Cile di “Gloria” si passa all'America di “Gloria Bell”, nonostante l’obiettivo resti sempre quello di raccontare, con fare femminista (forse più femminista di quanto non lo fosse in precedenza), le solitudini e le paure di quelle cinquantenni alla ricerca di una compagnia (moderatamente)stabile, che possa adattarsi e amalgamarsi - se non perfettamente, almeno in parte – ai capitoli – positivi e negativi - già scritti nel corso del primo spaccato della loro vita: tenendo conto di tutto ciò che questo comporti e voglia dire. Un discorso biunivoco che tuttavia non è detto – anzi, è praticamente impossibile - debba avere il medesimo peso specifico da ambo le parti: perché se ognuno ha la sua Storia, è altrettanto vero che ognuno, allo stesso tempo, ha modi diversi di gestire e vivere determinate situazioni e rapporti. Senza sottovalutare nemmeno quella teoria – che, comunque, fa acqua da tutte le parti - secondo la quale, se sei separato, è molto plausibile che tu sia difettoso e quindi incanalato a nascondere qualcosa, oppure a non essere esattamente un soggetto modello.

Gloria Bell LelioSupposizioni e logiche che, ovviamente, vanno ben oltre gli acciacchi dovuti all'età con cui la Moore deve combattere, o la panciera che John Turturro nasconde sotto la maglia e poi le chiede di togliere e buttare via, con leggerezza, durante il loro primo amplesso. Si tratta di ferite cicatrizzate, sprazzi di felicità e, a volte, scudi troppo protettivi e comodi da voler smontare, su cui diventa complicatissimo edificare, piuttosto che piantare dei semi. Un terreno sfruttato, quindi, che se non germoglia da subito compiacendo il nostro gradimento è utopistico immaginare possa riuscire a dare frutti diversi in futuro. Un muro su cui la Gloria di Julianne Moore sbatte, risbatte, prendendosi una pausa prima di tornare a sbatterci ancora: preda delle fantasie, delle angosce e delle convenzioni che le suggeriscono che per ballare, o rimettersi in pista, a questo mondo, è assolutamente indispensabile avere un partner al proprio fianco.

Uno schema che Lelio ci rammenta (o ci incoraggia a sostenere) essere superato - se non addirittura ridotto in frantumi - una volta giunti al finale, cesellando una pellicola un remake che, probabilmente, per riproposizione e per delocalizzazione risulta più centrato nella tematica-base, magari, ma meno acuto e intenso nell'esposizione: tant'è che a rimanere più impressa, tirando le somme, è la sublime interpretazione della sua bellissima e affascinante (a quasi sessant'anni) protagonista messa (letteralmente) a nudo.

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