Il Traditore - La Recensione

Il Traditore Bellocchio
Quando si parla di Mafia (o di malavita, in generale) e di mafiosi al cinema, la nostra testa ormai prova istintivamente ad anticipare, a intuire quali saranno le basi e le dinamiche della storia: come se a cambiare fossero solo i personaggi e non il punto di vista. Probabilmente un riflesso incondizionato, dovuto alla quantità di film dedicati al genere – in aumento negli ultimi anni - e alle poche variazioni che questi, nel bene o nel male, sono riusciti a costruire e a mostrare. Così, quando Marco Bellocchio decide di raccontare un personaggio complesso come quello di Tommaso Buscetta, le aspettative generali - a grandi linee - sono quelle di chi già pensa di sapere cosa avrà davanti.
Salvo ricredersi, poi, di fronte ai fatti.

Perché trova un modo nuovo, Bellocchio, per entrare dentro l’ennesima vita corrotta dal crimine; per avvicinarsi a uno dei soldati (semplici) di Cosa Nostra: ribattezzato dalle cronache – e dai magistrati – come il boss dei due mondi, nonostante – come gli fa notare Giovanni Falcone durante un interrogatorio – a vederlo e a sentirlo parlare non si riesca a capire come abbia fatto a ricevere tale etichetta. La risposta a questa domanda, tuttavia, si cela in maniera triturata e impercettibile all'interno de “Il Traditore”, non tanto per via di un maxi-processo che lo vede al centro e attraverso il quale Buscetta è riuscito letteralmente a sbatacchiare e a decimare l’organizzazione di Cosa Nostra, quanto per il ritratto di uomo che ne fa Bellocchio, schiarendone lentamente e pazientemente il profilo. Parte dal 1980, il regista, da una festa che sancisce la (finta) pace tra le due maggiori gang mafiose di Palermo e che lo vede ai margini, lontano dai salotti del potere dove le decisioni venivano prese. Da qui compie una scansione degli eventi pressoché cronologica, mettendo a fuoco le parti salienti che lo videro tornare dal Brasile – dove viveva con la moglie – in Italia come prigioniero prima e collaboratore (o pentito, se preferite) poi, e risultare decisivo per la cattura di 366 persone, tentando l’affondo persino nella politica, tramite il nome di Giulio Andreotti.

Il Traditore BellocchioMa ciò che ha più peso e che riesce a rapire ne “Il Traditore” è proprio questa voglia e questo interesse di voler assorbire e sradicare la morale di un personaggio che superficialmente verrebbe da giudicare come privo di principi, ma che nel suo essere cerebrale, introverso e appartenente a un Mondo – appunto – a noi sconosciuto, riesce a rivelarsi lo stesso tutt’altro che sprovveduto o banale. I momenti con Falcone e con la scorta - insieme a quelli del processo, ma lì è questione di spettacolo – allora diventano quelli più sinceri, più stimolanti, più umani, con il Buscetta di un Pierfrancesco Favino straordinario che si lascia andare a ideali di romanticismo mafioso e valori criminali, improvvisamente, secondo lui, venuti a mancare in un sistema a questo punto non più difendibile e da condannare. Un sistema che sa benissimo di non poter sconfiggere, neppure con l’aiuto dello Stato, ma a cui vale ugualmente la pena voltare le spalle e provocare un terremoto.

Una crociata che lo consumerà lentamente, che gli rovinerà la vita in molteplici modi, dalla quale però non farà mai alcun passo indietro, diventando a tutti gli effetti un traditore per i suoi ex-compagni e un amico per chiunque venga convocato a proteggerlo o a interrogarlo. Un ritratto, questo, da parte di Bellocchio, che a sprazzi lascia percepire una sorta di affezione, di eccessiva indulgenza, nei confronti di un personaggio che pulito e candido – lo sappiamo - non potrà mai pretendere di laurearsi ai nostri occhi. Ma è un effetto collaterale, una debolezza legata al fascino, istintiva, e quindi comprensibile, volontariamente smorzata, peraltro, attraverso una chiusura meravigliosa che va a elevare maggiormente i pregi e le profondità di una pellicola sorprendente.

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