Judy - La Recensione

Judy Renée Zellweger
Si apre con una giovanissima Judy Garland impegnata sul set de “Il Mago Di Oz”, il biopic di Rupert Goold. Con un dialogo che la mette alle strette quando il produttore della MGM, Louis Burt Mayer, si approfitta della sua ingenuità facendole capire che non le conviene disobbedire alle regole impartite: che lei ha un talento unico e di conseguenza non può ambire – né tantomeno deve desiderare – a una vita come quella inseguita dalle ragazze della sua età (la cui massima ambizione sarà quella di finire a fare le cassiere dentro un supermercato).

Un flashback che andrà ad unirsi agli altri che vedremo nel corso della pellicola, e che, ai fini pratici, servono a “Judy” per giustificare come siamo arrivati là dove si comincia a raccontare. E cioè a un passo dalla fine: con una Garland caduta dalla cresta dell’onda e costretta ad accettare un tour londinese del quale avrebbe fatto volentieri a meno, lasciando i due figlioletti in affidamento al suo ex marito. Una stella cadente, inaffidabile e impossibile, farmacodipendente e, neanche a dirlo, propensa a cadere frequentemente tra le braccia consolatorie dell’alcol. Il ritratto peggiore, il più indecoroso che si possa ricevere, eppure è praticamente impossibile avercela con lei; puntarle il dito contro, accusarla di irresponsabilità, perché i suoi comportamenti sono figli di un’industria cannibale, agghiacciante e irriconoscente, capace di spremerti fino all'osso e fino a quando puoi fargli comodo, buttandoti via, poi, nel momento in cui comincerà a vederti solo come un peso. In quello sguardo, allora, in quegli occhi che non mascherano un’infelicità indelebile e crudele – e che il sorriso di scena può aiutare al massimo rendere meno palese – possiamo intravedere i cocci di un’infanzia rubata, abusata, che neppure i ricordi, a volte, sembrano avere la forza (e il coraggio) di mettere completamente a fuoco, tanto fa male il tornare a sbirciare.

La modalità di esposizione scelta da Goold non è esattamente di quelle canoniche, dunque, ma che si allontana dalla metodologia classica o scolastica, per guardare a un taglio leggermente più vicino alla modernità del genere. Un taglio che, però, non viene confermato sotto l'aspetto dei contenuti, che invece danno l’impressione di essere fin troppo striminziti, rigorosi e appesantiti da una retorica e da un'enfasi sempre sul punto di straripare e, quindi, di rendere precario sia l'equilibrio che il passo. Responsabilità di una regia che, probabilmente, avrebbe dovuto restare al di sopra, o alla pari, di una Renée Zellweger a cui viene delegato il compito – come era prevedibile – di prendere il film e di metterselo sulle spalle, vestendolo e guidandolo: dandogli moltissimo, sicuramente, ma togliendogli anche qualcosina attraverso certe parentesi drammatiche che servono più a mettere in risalto la sua buonissima interpretazione, che ad ampliare la descrizione del personaggio che sta celebrando.

Una vittima dei tempi, del suo talento e di uomini – vicini e lontani – che l'hanno ininterrottamente sfruttata, non accorgendosi mai della bontà, dell'innocenza e della fragilità che portava dentro. Era questo Judy, prima di essere quell'artista unica per cui la gente non vedeva l’ora di pagare il biglietto e sentirla cantare. E nell'ultima scena – quella più emozionante del film – Goold e la Zellweger riescono a riassumerlo precisamente e con grande affetto.
Quello che, quando era viva, in pochi hanno saputo mostrargli.

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