Black Phone - La Recensione

Black Phone Poster

Smaltiti i postumi, non proprio benefici, di “Doctor Strange” e di casa Marvel, Scott Derrickson torna alle origini. Torna all’horror.
Lo fa portando al cinema uno dei racconti di Joe Hill – il figlio di Stephen King – contenuto nella raccolta antologica “Ghosts”, e nello specifico quello intitolato “The Black Phone”.

Ad accompagnarlo – a proposito di nostalgia e di passato – c’è Ethan Hawke, chiamato a vestire i panni di un misterioso serial killer pedofilo, caratterizzato da una maschera inquietantissima che non toglie (quasi) mai dalla faccia e che – anche per questo – (ci) fa pensare un po’ all’antitesi del personaggio che lui stesso interpretava in “Sinister”. Una minaccia che giornali chiamano The Grabber – Il Rapace – per via della velocità con la quale agisce e riesce a rendersi praticamente invisibile a chiunque. Set-up e curriculum che, se vogliamo, vanno leggermente in contrasto con tutto il primo blocco di “Black Phone”, quello in cui ci vengono presentati i due protagonisti – fratello e sorella – e dove vediamo questa cittadina di periferia che, comunque, sembra continuare a vivere la sua quotidianità come se niente fosse: con giovani adolescenti che girano in autonomia, senza nemmeno un genitore che, in apprensione, insista per scortare il figlio da casa a scuola e viceversa. Leggerezza che, pur non rappresentando il cuore di ciò che Derrickson andrà a raccontare, rende l'impronta del contesto generale meno credibile e accettabile, non aiutando la pellicola a entrare immediatamente nell'atmosfera e mettendo in evidenza alcune sbavature, reiterazioni e didascalie che, invece, avrebbero assunto maggior potenza se trattenute sottopelle.

Black Phone Hawke

Sensazione che cambia completamente, nel momento in cui l’azione entra nel vivo: e quindi quando il giovane Finney viene rapito e portato nello scantinato di questo appartamento con all’interno un materasso trasandato, una finestra inferriata e un telefono nero attaccato al muro, palesemente fuori uso. Da qui “Black Phone” diventa un altro film, diventa il film che voleva e doveva essere, col paranormale che si fa spazio e la sua metafora sulla violenza e sul bullismo a fare (la differenza e) da sfondo. Non dovendo più occuparsi di delineare i caratteri e le situazioni dei suoi personaggi, Derrickson, comincia a muoversi a briglia sciolta, a creare scene oggettivamente d’impatto e assai spaventose (e dolorose), riuscendo a fornire alla trama quella forza, quell’emotività e quella decisione che gli si potevano contestare all’inizio. Una giostra che una volta partita – pur mantenendo degli interrogativi sui quali si è costretti a chiudere un occhio – funziona talmente bene da non decelerare mai la sua corsa, trascinandoci direttamente e con ritmo verso un finale coerente e liberatorio, che evita intelligentemente di lasciarsi porte aperte per eventuali e inutili sequel.

Aiutato tanto dal talento di due giovanissimi attori – su tutti quello della straordinaria Madeleine McGraw – già capaci di reggere bene il peso di una pellicola sulle spalle, “Black Phone” fa il suo dovere, senza esaltarsi ed esaltare troppo, quindi. Avrebbe avuto le potenzialità per curarsi di più, essere più incisivo, non c’è dubbio, ma di questi tempi, forse, un risultato così, sopra la sufficienza, vale come quell’esame all’università che “non mi importa della media, basta che lo passo”.
E, allora, a noi non resta che accontentarci.

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