Elvis - La Recensione

Elvis Poster Film

Chi ha ucciso Elvis?
Chi è il responsabile della sua (prematura) morte?

Sembra voler rispondere a questo quesito il (pop) biopic scritto – con Sam Bromell, Craig Pearce e Jeremy Doner – e diretto da Baz Luhrmann: che come al suo solito – e come, forse, ci si poteva aspettare – non si lascia corrompere dai minimalismi e mette lo sfarzo e lo spettacolo al di sopra di tutto e di tutti. Al di sopra, pure, dell’Elvis più interessante, quello privato. 
Non è Pablo Larrain, lui, del resto. Per cui aspettarsi un racconto capace di poter scavare in profondità e di andare a ricostruire l’anima più intima di una star così gigantesca e rivoluzionaria, non poteva che essere un’utopia, una scommessa persa in partenza. E da un certo punto di vista è un bene che questo “Elvis” sia, in realtà, l’Elvis di Luhrmann, ovvero una pellicola immaginata, strutturata e realizzata alla perfezione secondo le caratteristiche del suo regista. Nei pregi e nei difetti. Un caleidoscopio di immagini e informazioni che viaggia a mille all'ora costantemente oltre le righe, fuori dai bordi, sedotto dalle performance di un Austin Butler vocalmente impressionante, che vanno a mangiare tempo alla sconfinata carne al fuoco che c’è da gestire lontano dal palco: quella della formazione, della solitudine dell'artista lontano dai riflettori, del suo rapporto tossico col Colonnello Parker – il villain di questa storia – e della Storia americana che influenzava e che veniva influenzata dal suo nuovo fenomeno.

Elvis Butler Film

Finisce, allora, per somigliare a un bignami di serie b, o a un racconto illustrato, “Elvis”.
Vittima del suo ritmo forsennato e del suo smaccato amore per il protagonista che gli impedisce di distaccarsi, rallentare e prendere aria. Di approfondire, in sostanza: toccando e sfiorando una miriade di questioni, di conflitti e di sfumature che bisognerà sfatare, probabilmente, presso le fonti di altre sedi. Eppure, c’è del paradosso. Perché se tali mancanze sarebbero bastate ad affossare l’opera di un qualunque altro regista, per Luhrmann non va allo stesso modo. Il suo mastodontico concerto musicale non affonda, galleggia. Tiene perfettamente la durata lunghissima di due ore e mezza (e più), appesantendo lo spettatore molto meno di quanto le previsioni presagissero. Non trova una direzione, un verso – Di cosa vuole parlare veramente? Chi è il protagonista, alla fine, Butler o Tom Hanks? – e sgonfia persino l’assunto di partenza, ma sorretto dalla filosofia del the show must go on intercetta una posizione comoda nel disequilibrio, riuscendo nell’intento di non accontentare nessuno e intrattenere tutti (mi ricorda qualcuno!).

Siamo di fronte a un oggetto misterioso, insomma.
Ambiguo come restano ambigue le figure che pone al centro (e sullo sfondo).
Un film che tende a essere dimenticato con la stessa velocità con la quale ti viene sparato nelle pupille; che si accontenta di dare un’infarinatura di ciò che era e che ha rappresentato Elvis per la cultura musicale e americana (e mondiale). Un film freddo, che per emozionare e restituire qualche brivido deve aggrapparsi alle immagini di repertorio inserite nei titoli di coda. Ma nonostante tutto, un film, che non ti permette di staccare mai la testa dal grande schermo.
Il che, fino a prova contraria, non può che costituire un merito.

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