Come un Tuono - La Recensione

La seconda mossa di Derek Cianfrance dopo il successo all'esordio con "Blue Valentine" è una pellicola dalle fattezze ancora indipendenti ma con aspirazioni nettamente ben più alte di quanto apparentemente si potesse stimare.

La storia di "Come un Tuono" ha le stesse caratteristiche dei grandi kolossal cinematografici che in passato hanno lasciato il segno ma, in confronto a loro, porta quel distintivo nascosto nel taschino interno, insicura del suo pieno valore e della sua aderenza sul pubblico. Diviso in tre fasi - la prima attaccata a Ryan Gosling, la seconda a Bradley Cooper e la terza ai loro rispettivi figli - il dramma intenso dipanato dalla pellicola si allarga allora con moderazione, puntando dritto sulla figura dei padri e su quanto questa senta un forte obbligo di protezione nei confronti della sua prole (secondo Gosling ci vorrebbe una legge apposita a riguardo). Tutto gira intorno ai figli, dunque, e ai loro genitori – vicini e allontanati - disposti a mettere a rischio la propria vita pur di non perdere l'opportunità di stargli accanto e di regalargli, un giorno, un mondo migliore in cui vivere.

Cianfrance si fa però improvvisamente autore spietato. Pertanto, dalla flebile speranza che inizialmente si credeva stesse costruendo si concede un inaspettato cambio di guardia a capo del suo lavoro che spiazza completamente lo spettatore e dirotta tutto verso una strada carica di dolore e desolazione. Ogni azione dei padri (che non deve essere per forza un errore, sia chiaro) ricade inevitabilmente sulla vita dei loro figli, i quali, incapaci di cambiare il risultato di questa equazione, rimangono esclusivamente delle povere vittime innocenti. La differenza tra un padre assente e uno troppo presente - addirittura ingombrante - a questo punto va ad eliminare quel divario sociale esistente al principio, mettendo in crisi madri dal polso troppo debole e padri (o surrogati) ben disposti e onesti. “Come un Tuono” si tramuta così una distorta metafora sulla retta via, dal sapore amaro ovviamente, dove nessuno, in realtà, ha facoltà di costruzione e dove tutto è lasciato nelle mani del caso.

Nei suoi lunghi centoquaranta minuti Cianfrance è abile a smuovere gli stomaci e le menti, avvalendosi di una sceneggiatura ricca e colma di cambi, sia di ritmo che di centri d’interesse. Resta il fatto però che la sua è una storia non universale, che si esaurisce nei casi specifici che racconta e che sicuramente non riesce a reggere fino alla fine e, specie nella mezz'ora finale, fa sentire tutta la fatica di un allaccio troppo vasto e stratificato. Questo trascinamento impedisce all'opera di completarsi con la stessa convinzione con cui si era aperta, sfuggendo al tentativo di lasciare un segno ugualmente profondo a quello che il regista aveva lasciato col suo impegno precedente e attaccando con l’uso di una lama senz'altro più leggera ma che in alcuni frangenti non si risparmia anch'essa di piantare cicatrici evidenti.

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