Synecdoche, New York - La Recensione

Viaggi mentali, surreali, utopistici.
Piacciono tanto queste cose a Charlie Kaufman, sceneggiatore per eccellenza di registi altrettanto eccellenti come Spike Jonze e Michel Gondry, piacciono al punto da farne tesoro anche per quello che segna il suo primo, vero esordio alla regia. Chiaramente un esordio prezioso, ricco di interpreti straordinari (Philip Seymour Hoffman in primis), sostenuto da una trama ambiziosa che cresce sproporzionatamente e a vista d'occhio.

Potrebbe essere la visione più assurda mai concepita da Kaufman quella rappresentata da "Synecdoche, New York": portare la realtà della vita a teatro in una maniera così speculare e ossessiva da rimanere inghiottiti e perduti tra verità e finzione. Ricostruire una città intera, metterci dentro il caos, aggiungere gli incontri, l'evoluzione delle relazioni, nuovi personaggi, il tempo, eppur non perdere la magia dell'irreale, colei in grado di dare senso all'opera infinita e testamentaria. E' come un viaggio psichedelico allora quello del protagonista Caden, iniziato tramite una malattia di gravità indefinita che anziché distruggerlo lo accompagna lentamente condizionandogli un'esistenza intera, la stessa usata, vista la precarietà, per lasciare un segno indelebile nel suo lavoro di regista teatrale, allestendo un meraviglioso capolavoro destinato a non andare mai in scena ma a lasciare tutti a bocca aperta. Una serie di eventi, alcuni assurdi, altri meno, tutti necessari a definire la sua vita, a distruggerlo mentalmente, a confonderlo e a mettere soprattutto in evidenza le lacune aventi con l'universo femminile, quello che lo ama ma puntualmente lo ferisce. Esperienze che in questo tragitto tortuoso, razionale magari, ma del tutto paradossale, lo aiutano a capire non solo se stesso, ma il mondo intero e i suoi movimenti, quelli a cui ha cercato di dare significato ogni giorno.

Grandi, grandissimi sono ovviamente gli intenti di Kaufman e del suo progetto, al punto che persino a lui, in più di un occasione, non restano in mano e sfuggono, procedendo soli, autonomi, di vita propria. Sono i momenti in cui "Synecdoche, New York" stupisce oltre i propositi, strappa mezzi sorrisi, va fuori strada (o magari ci torna) e azzecca spunti che allargano oltremisura la sua coperta già enorme e ingestibile. A tratti stuzzica, rompendo quel sottofondo tetro che fa da sfondo e regalando quel po' di ossigeno vitale che spesso viene a mancare appesantendo il contesto. Non è facile infatti convivere con lo spirito drammatico e ricurvo che la pellicola generosamente concede allo spettatore, la natura cervellotica che la fa da padrone contribuisce a tenere a bada l'acceleratore in maniera forse troppo eccessiva, segno distintivo, pensiamo, di chi ha nell'arte della sceneggiatura esperienza maggiore che nella regia.

Come accade a Caden perciò, è la sofferenza la sensazione primaria che viene ad avvolgerci durante la visione di "Synecdoche, New York", seguita a pochi metri di distacco dalla malinconia. D'altronde è questo che accade quando si cerca di dare alla nostra esistenza uno scopo, un valore, pur sapendo, dentro, che ciò non è esattamente realizzabile, o perlomeno non nelle dimensioni che intendiamo.
Kaufman, come Caden, ha provato a scrivere e a realizzare il suo capolavoro, a fondere realtà, teatro e cinema. Nella sua testa la fusione sarà stata sicuramente sublime, nella nostra visione invece un tantino al di sotto.

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