Dai volti cianotici con cui sono ripresi, sembra che tutti in "Un Piccione Seduto Su Un Ramo Riflette Sull'Esistenza" debbano vivere il fatidico appuntamento con la morte accennato in apertura. Poi però qualcosa cambia: la serialità delle morti satiriche svanisce all'improvviso, alcuni volti si colorano, e quella che poteva essere una commedia nera fuori dagli schemi, dai toni sarcastici e divertenti, si affievolisce in un guscio vuoto e spento.
Eppure quello di Roy Andersson resta uno sguardo eccentrico, fuori dalle righe. Accompagnato dalla volontà infinita di scatenare il ridicolo ovunque, meglio se è laddove normalmente di ridicolo c'è poco o nulla. E finché questo meccanismo è messo all'interno di sequenze veloci, abitate da soggetti strambi, che dalla quotidianità vengono risucchiati e uccisi, la cosa funziona benissimo, attirando e solleticando le risa oltre ogni previsione. Tutto cambia tuttavia quando, nel tentativo di voler alzare l'asticella, "Un Piccione Seduto Su Un Ramo Riflette Sull'Esistenza" comincia a cucire un intreccio più esteso in cui pur continuando a scacciare ogni tipo di senso logico, non riesce a mantenere l'equilibrio ostentato all'inizio, imbarcando acqua a poco a poco e smorzando l'entusiasmo che era stato scaltro nel diffondere calmo. L'ambizione della pellicola affossa lentamente tutto il bene promesso nel primo quarto d'ora con l'aiuto di una monotonia e una comicità fine a se stessa, introdotta da una serie di personaggi e situazioni potenzialmente devastati, ma concretamente scarichi e a basso raggio.
Due venditori ambulanti di articoli per divertimento tristi per definizione, un insegnante intenta a recuperare ad ogni costo la relazione alla deriva che ha (o forse tenta di avere, non si sa) con uno dei suoi alunni, una taverna in cui si serve grappa a tempo di musical, sovrani omosessuali in cerca di compagnia. Queste e poche altre sono le attrazioni con cui Andersson cerca di passare il tempo e di coinvolgere, portando avanti un filo magrissimo del discorso che smette addirittura i panni ironici a disposizione in anticipo rispetto quella che poi sarà la fine della corsa. Agguanta un paio di scene divertenti e stravaganti abbastanza da apparire geniali (su tutte la ballata della grappa nella taverna) il suo lavoro, sebbene non sia capace poi di sfruttarle al meglio, abbandonandole sole per tornare inspiegabilmente a quel tipo di basso ritmo e di spirito, figlio d'un esposizione che pare essere più ad uso e consumo suo personale che dedicata agli altri.
E' troppo tardi allora quando Andersson si pone la fatidica domanda - attraverso uno dei due venditori - e si chiede se è giusto usare gli esseri umani solamente per il proprio divertimento? Lo è innanzitutto perché ammette un dubbio che quantomeno non avrebbe dovuto avere e poi perché il tempo a disposizione per risanare, ammesso che volesse farlo, ormai è scaduto. E il suo "Un Piccione Seduto Su Un Ramo Riflette Sull'Esistenza" è crollato.
Trailer:
Eppure quello di Roy Andersson resta uno sguardo eccentrico, fuori dalle righe. Accompagnato dalla volontà infinita di scatenare il ridicolo ovunque, meglio se è laddove normalmente di ridicolo c'è poco o nulla. E finché questo meccanismo è messo all'interno di sequenze veloci, abitate da soggetti strambi, che dalla quotidianità vengono risucchiati e uccisi, la cosa funziona benissimo, attirando e solleticando le risa oltre ogni previsione. Tutto cambia tuttavia quando, nel tentativo di voler alzare l'asticella, "Un Piccione Seduto Su Un Ramo Riflette Sull'Esistenza" comincia a cucire un intreccio più esteso in cui pur continuando a scacciare ogni tipo di senso logico, non riesce a mantenere l'equilibrio ostentato all'inizio, imbarcando acqua a poco a poco e smorzando l'entusiasmo che era stato scaltro nel diffondere calmo. L'ambizione della pellicola affossa lentamente tutto il bene promesso nel primo quarto d'ora con l'aiuto di una monotonia e una comicità fine a se stessa, introdotta da una serie di personaggi e situazioni potenzialmente devastati, ma concretamente scarichi e a basso raggio.
Due venditori ambulanti di articoli per divertimento tristi per definizione, un insegnante intenta a recuperare ad ogni costo la relazione alla deriva che ha (o forse tenta di avere, non si sa) con uno dei suoi alunni, una taverna in cui si serve grappa a tempo di musical, sovrani omosessuali in cerca di compagnia. Queste e poche altre sono le attrazioni con cui Andersson cerca di passare il tempo e di coinvolgere, portando avanti un filo magrissimo del discorso che smette addirittura i panni ironici a disposizione in anticipo rispetto quella che poi sarà la fine della corsa. Agguanta un paio di scene divertenti e stravaganti abbastanza da apparire geniali (su tutte la ballata della grappa nella taverna) il suo lavoro, sebbene non sia capace poi di sfruttarle al meglio, abbandonandole sole per tornare inspiegabilmente a quel tipo di basso ritmo e di spirito, figlio d'un esposizione che pare essere più ad uso e consumo suo personale che dedicata agli altri.
E' troppo tardi allora quando Andersson si pone la fatidica domanda - attraverso uno dei due venditori - e si chiede se è giusto usare gli esseri umani solamente per il proprio divertimento? Lo è innanzitutto perché ammette un dubbio che quantomeno non avrebbe dovuto avere e poi perché il tempo a disposizione per risanare, ammesso che volesse farlo, ormai è scaduto. E il suo "Un Piccione Seduto Su Un Ramo Riflette Sull'Esistenza" è crollato.
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