Non Essere Cattivo - La Recensione

Ce ne sono di corrispondenze tra "Amore Tossico" e "Non Essere Cattivo", due pellicole assai dissimili nelle loro interiora, eppure accomunate da un microcosmo e da un ostilità che rappresenta un po' quel cerchio di speranza arida e disperazione, disegnato con forza e con passione da Claudio Caligari.
Un regista romantico, non nei modi magari, quanto nella determinazione: quella che lo ha portato a realizzare un film anni novanta nel 2015, cambiando poco o niente di ciò che era e doveva essere, ma anche quella che lo ha fatto resistere alla sua malattia, fino alla battuta dell'ultimo ciak buono. Quello del "finalmente", quello del "missione compiuta".

E allora poco importa se a montare la stesura definitiva ci ha pensato Valerio Mastandrea, se Martin(o) Scorsese non ha partecipato all'ultimo sogno di un uomo che veramente, alla lontana, poteva essere come lui, o perlomeno come i suoi film, perché l'importante è accontentarsi, prendere atto del mondo e di chi lo abita e comprendere che sarà sempre dura, sempre in balia di una sorte da fronteggiare o sotto cui arrendersi. Caligari questo lo aveva capito e con un ultimo schiaffo voleva che a capirlo fossimo anche noi.
Ma certe cose non si afferrano ovunque, bisogna scendere in basso, nelle vite di chi è considerato un randagio, un misero. Nella vita di chi non ha niente in tasca e un sacco di motivi per cui lottare e per questo, per sopravvivere, sa di dover abbaiare forte e sbavare, senza mordere (quasi) mai veramente per continuare a muoversi. Cattivi si, ma in apparenza, dunque, Vittorio e Cesare, che nella Ostia che ritorna sbarcano a singhiozzo il lunario tra spaccio di pasticche e piccoli furti. Due amici stretti da un legame fortissimo e indissolubile, accomunati da un peso da portare sulle spalle più grande di loro e della loro maturazione. Per farci scendere in tale mondo - distante chilometri dal nostro - Caligari allora ha bisogno di una via diretta, secca, dove i filtri e la fiction fanno spazio alla realtà delle serate, dei dialoghi e dei problemi dei protagonisti, l'unico modo per replicare nella nostra bocca quel sapore di amaro e nella nostra testa quel sollievo che solo un ottimo allucinogeno scacciapensieri può dare.

Vittorio e Cesare infatti sono entrambi dei buoni, cercano una felicità piccola, misera come loro. Una felicità che ai loro occhi dista tanto quanto per qualcun altro dista quella assoluta, e quando hanno modo di raggiungerla, a gomitate e a brandelli, si rendono conto di come trattenerla sia mestiere ancor più complicato, con dei sacrifici direttamente proporzionali. Accelerare o decelerare, questo è il problema. Tentare il salto più lungo della gamba o decidere di camminare, a piccoli passi. Un dilemma su cui "Non Essere Cattivo" cuce la sua totale umanità, che usa per affezionarsi ai suoi delinquenti e con cui li accompagna verso la divisione delle loro strade e il loro destino.
Strade che per Caligari non sono per niente o giuste o sbagliate, al massimo l'una meno pericolosa dell'altra. Quindi male asfaltate, strette, trafficate e come se non bastasse perennemente comunicanti tra loro, come a non voler santificare una salvezza definitiva o finale.

Ci lascia col dubbio, insomma, senza certezze o rassicurazioni, come quando pensiamo a che effetto avrebbe avuto la sua pellicola se fosse stata girata e distribuita nel momento in cui avrebbe dovuto. Quel momento che adesso sembra non essere passato, fermatosi ad aspettare, ad attendere ciò che in cuor suo voleva.
Perché sarà pur vero che la negatività è ovunque, ma altresì è vero che la speranza c'è, nascosta, in minoranza, ma presente.

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