Joy - La Recensione

Il regista David O. Russell ormai pare aver capito come funziona. Da qualche anno a questa parte ha individuato la falla del sistema e, anziché correggerla, ha deciso di sfruttarla a proprio piacimento, per usufruire della generosa dose di pagamento generale e di appagamento personale che puntualmente gli viene concessa, ogni volta, generosamente.

E' tutta una messa in scena infatti, studiata, architettata e condita da attori e attrici di primo livello (quantomeno per la massa), con digressioni abituali, irrinunciabili, che servono per uscire fuori dalle righe con i toni e dare inizio a quella serie calcolata di scenette e battute che sembra chissà dove vogliano andare a parare, ma poi, come al solito, servono solo a lui per mantenere una gestione eccessivamente controllata e poco fluida del contesto srotolato. Insomma, Russell muove i fili e il pubblico abbocca, Russell vuole che rida e il pubblico ride, Russell vuole che si appassioni e lui si appassiona. Somiglia a un pifferaio magico, quasi, e la netta percezione giunge nel momento in cui "Joy" apre i battenti mostrando una scena da soap-opera che solo qualche istante più avanti capiremo appartenere alla programmazione di una televisione vecchio stampo. Uno dei tanti trucchi che servono alla pellicola per allungare il brodo e tardare l'imbastitura di un discorso - peraltro largamente superato - sul sogno americano e il capitalismo: denunciati come l'uno l'opposto dell'altro e poi messi entrambi sulla bilancia in contrapposizione al peso affettivo di una famiglia che, in perfetta linea con la maggior parte delle opere di Russell, risulta più che mai fuori di testa e male principe della Joy inventrice, protagonista.
Discorso, d'altronde, che se fosse uscito troppo prematuramente e non fosse stato ricoperto a dovere dalla carne al fuoco, inutile, ma di soccorso, avrebbe svelato con netto anticipo la natura fragile e arida della storia messa sul piatto, quella che invece, così come è stata ricoperta e truccata, ai più sfugge nell'immenso mare della fuffa generato.

Perché oltre alla furbizia collaudata del suo regista, a penalizzare "Joy" c'è una sceneggiatura dalla coperta corta e le argomentazioni modeste, che una volta denudata dalle protezioni di sicurezza e arrivata al suo cuore, dimostra comunque di soffrire di una scrittura approssimativa e scarna. Sono gli interpreti allora a dover fungere da specchietto per le allodole ed immolarsi per arricchire la confezione di un prodotto oggettivamente povero di cui si fa capitano, tuttavia, una Jennifer Lawrence in vena, nel ruolo di una donna forte, madre di due bambini e separata dal marito: donna che somiglia a un surrogato non molto distante da quel personaggio a cui lei stessa aveva dato respiro, fino a pochi mesi fa, nella saga young adult di "Hunger Games".
La telecamera di Russell, dunque, non la molla neanche un secondo, è il suo carattere tignoso e implacabile l'elemento più forte della scena, forse addirittura il più stabile e coerente del film, questo almeno fino a quando lo stesso Russell non decida che sia arrivato il momento di manipolare anche quello, guastando, nella scena che anticipa il finale, l'unica entità dignitosa e non seccante del suo posticcio teatrino.

Di quello che era stato il regista e l'autore di "The Fighter" quindi è evidente sia rimasto solamente il nome, poiché da quello che vediamo ultimamente, la scena, ora è occupata da un illusionista il cui incantesimo, seppur da queste parti risulta difettoso, continua, in altri lidi, a conquistare folle e a convincere guadagnando terreno.
Qui, però, con tutto il rispetto, pensiamo che il cinema vero sia un'altro, precisamente quello che Russell ha deciso di fare, ma in fac-simile copia.

Trailer:

Commenti