The Hateful Eight: Attori, Assassini e Pedine di Scacchi


L'orario del primo pomeriggio non ha scoraggiato nessuno dei numerosi giornalisti, aspiranti tali, o imbucati che nel Tarantino Day, a Roma, hanno assalito l'Hotel vicino Piazza di Spagna in cui era stata allestita l'attesissima conferenza stampa del film "The Hateful Eight". Presenti li, a rispondere alle domande e alle curiosità del numeroso pubblico, oltre chiaramente alla star, Quentin Tarantino, c'erano gli attori Kurt Russell e Michael Madsen insieme al Maestro, candidato all'Oscar Ennio Morricone.

Pronti-via, e già le mani alzate per fare domande al regista del film fanno fatica a contarsi, ma si comincia dalla curiosità che unisce un po' tutti i suoi lavori di raccontare le storie di personaggi che fingono di essere chi non sono, insegnando, a volte, anche a qualcun altro l'arte della recitazione e mistificando quasi sempre la loro vera identità. "In effetti è vero", ammette Tarantino, "Questo è un po' un elemento comune che percorre tutti i miei film, forse con l'unica eccezione, in parte, di "Pulp Fiction", dove magari c'è il personaggio di Bruce Willis che fa finta, anche se li è un qualcosa di leggermente diverso. Se dovessi trovare un perché però non saprei che dirvi. E' qualcosa che mi piace, mi piace come aspetto drammatico ed è per questo, forse, che fa capolino in tutti gli scenari che realizzo. Probabilmente i miei personaggi sono degli ottimi attori e io amo molto metterli alla prova".
E a proposito di recite e di ruoli Tarantino spiega anche perché, alla base di "The Hateful Eight", ci sia la pazienza, lo studio dei protagonisti, prima dell'esplosione della violenza che, probabilmente, conoscendo il regista, molti invece si aspettavano in anticipo. "Si tratta di un lavoro molto teatrale", dice, "Potrebbe quasi essere definito come una pièce. Questo non è certo il tipo di film in cui puoi ricorrere a tutti quei trucchetti utilizzati solitamente per abbreviare i tempi. Ci sono personaggi che stanno giocando una partita a scacchi con sé stessi, loro sono le pedine, cercano di combattere, giocarsi la loro posizione, cospirano tra loro e tramano, l'uno contro l'altro. E in questo caso il vantaggio di girare in 70mm è quello di potere avere contemporaneamente un piano principale e contemporaneamente uno sfondo che ti permette di avere sempre la possibilità di controllare cosa fanno i personaggi in qualsiasi momento. Questo mi ha consentito di aumentare la suspense e di avere un crescendo, così man mano che lo spettatore comincia a conoscere meglio i personaggi, lo sente che prima o poi qualcosa esploderà. Solo che non sa quando. Per questo poi l'esplosione rappresenta l'inferno".

Ennesima riprova di quanto al regista statunitense piaccia giocare con i generi, accostarli, sovrapporli, percorrendo sempre strade diverse e inedite. Così a chi gli chiede se questo faccia parte di una metodologia oppure di puro istinto lui risponde così. "Io tendo sempre ad essere trascinato da un genere, ma poi succede che mi ritrovo a lavorare su qualcosa in cui ce ne sono, ogni volta, molti di più. Il fatto è che io non riuscirò mai a fare tutti i film che vorrei, quindi alla fine condenso e faccio cinque film dentro uno solo. Come amante del cinema, tra l'altro, mi piacciono quei film che sono un po' un miscuglio di vari generi. Il fatto di riuscire a farlo quindi credo sia qualcosa di estremamente positivo per me e per il pubblico, che con i soldi di un biglietto può entrare in sala e vedere non uno, ma ma ben cinque film. E' come se avessi il talento da giocoliere, se vogliamo. Poi, per quanto riguarda la mia metodologia, chiaramente dipende dal film e dalla storia. A volte è tutto pianificato in anticipo mentre a volte mi lascio un po' andare. Altre volte però accade anche che, completata la sceneggiatura, mi rendo conto che ci sono degli elementi su cui non avevo riflettuto che non posso non prendere in considerazione utilizzando meglio. Quando ho cominciato a lavorare a "The Hateful Eight", per esempio, sapevo che volevo realizzare un western e che volevo realizzarlo in giallo da camera alla Agatha Christie, però è stato soltanto alla fine del montaggio del film che mi sono accorto di avere in mano anche un horror".

Rimanendo vincolati ai generi, poi, a qualcuno non sfugge l'inaspettato riferimento politico presente nella pellicola, trattato stavolta in maniera assai più matura di quanto eseguito in passato. Un argomento su cui però Tarantino sembra abbia intenzione di discostare l'attenzione, ritenendo eccessivi gli accostamenti tra il suo ultimo film e i recenti "Lincoln", "Gangs Of New York" e "La 25^ Ora", tutte pellicole che negli ultimi anni hanno riesaminato la storia Americana, secondo qualcuno, rielaborandola. "Non lo so, sinceramente. Forse la cosa poteva valere più per "Bastardi Senza Gloria" e "Django Unchained". Ciò che posso dire su questo film è che quando mi sono messo a scriverlo non doveva essere un film politico, c'è diventato in un secondo momento. Soltanto quando i personaggi hanno cominciato a parlare, a dialogare e a discutere di quello che era la vita nel periodo post-bellico della guerra civile, mi sono accordo dei riferimenti alla situazione politica attuale che c'è nel mio paese tra i democratici e i conservatori. Poi, lo ammetto, quando abbiamo cominciato a realizzare il film, durante il periodo delle riprese, è successo che si sono verificati alcuni fatti di cronaca su cui, inevitabilmente, ci capitava di discutere sul set e, mano a mano che ne parlavamo, ci rendevamo conto di quanto anche il nostro film sembrava essere pertinente con la realtà. Che posso dire? A volte sei fortunato!".

Ma, tra una battuta e l'altra, come al solito non mancano le polemiche, o perlomeno quelle domande un po' taglienti che il regista - forse perché abituato, ormai, da una lunga promozione, o perché semplicemente di buonissimo umore - con esperienza schiva, rispondendo persino in maniera schietta. La risposta a chi gli chiede infatti se la prigioniera doveva essere già dal principio una donna e perché, in quanto tale, costretta a subire ripetutamente colpi violenti dal personaggio di Kurt Russell è la seguente. "Si, la prigioniera doveva essere una donna sin dall'inizio. Ma, fondamentalmente, anche se fosse stata un uomo di centocinquanta chili di peso, il film non sarebbe cambiato minimamente. Il fatto che ci sia tanto accanimento su di lei dipende dall'atteggiamento del personaggio di Russell, perché come cacciatore di taglie che mira a portare alla forca i suoi prigionieri da vivi, non può fare altro che comportarsi da violento: picchiando e sottomettendo le vittime per evitare che scappino, si ribellino o lo colpiscono. Per cui l'avere o meno una donna non fa alcuna differenza per lui.
Però l'idea di avere una donna a me piaceva proprio perché sapevo che poteva andare a complicare la storia, le emozioni, la visione del pubblico mentre guarda il film".

Arriva lo spazio anche per gli attori, ai quali viene chiesto com'è condividere il set con Tarantino e cosa pensano loro della sua poetica. Il primo a rispondere è Michael Madsen, che nel film è un personaggio abbastanza silenzioso e di poche parole, un personaggio che a vederlo dal vivo sembra appartenergli abbastanza, perlomeno inizialmente. "Io credo che si possano vedere da due punti di vista diversi i film di Quentin Tarantino", esordisce l'attore. "Uno è quello politico, l'altro d'intrattenimento. Sta a chi guarda decidere. Credo che sin dai tempi de "Le Iene", o di "Kill Bill", lui sia sempre riuscito a trovare questa connessione, questo riflesso, tra i suoi film e quello che accadeva nella realtà, ma su una cosa non ci piove: le sue sono storie che tendono più a risolvere i problemi che a crearli". Poi, su questo ultimo film aggiunge: "sono cresciuto in una famiglia in cui non sempre mio padre ha apprezzato i film che facevo, però questo film, sono convinto a mio padre sarebbe piaciuto. L'avrebbe voluto vedere. Mi dispiace molto infatti che ci abbia lasciati lo scorso dicembre. Ma se mi senti papà, sappi che il tuo ragazzo stavolta si è comportato bene".
Lo segue Kurt Russell, riprendendo il discorso iniziale e ammettendo che personalmente, di Tarantino a lui piace particolarmente il modo in cui è capace a tessere le ragnatele delle sue storie. Poi, sul personaggio che interpreta, racconta: "mi è piaciuto molto impersonare John Ruth, lui, secondo me, rappresenta qualcosa che riguarda proprio gli Stati Uniti dell'epoca: un paese in cui, era risaputo in tutto il mondo, anche la persona più piccola, più insignificante avrebbe avuto diritto a un processo in tribunale, davanti a un giudice. John, penso, sia qualcuno che voglia onorare questa cosa, dando quindi a tutti il diritto di avere una possibilità di giudizio".

La palla poi ripassa ancora a Tarantino, di cui è nota l'abilità ad ispirarsi ad altri film che poi i critici e gli esperti giocano un po' a ripescare tra le varie scene e i vari passaggi. Nelle atmosfere di "The Hateful Eight" c'è chi allora ha intravisto un omaggio a "La Cosa" di John Carpenter, un omaggio che il regista di "Pulp Fiction" non nega completamente, ma ci tiene a specificare che, secondo lui, sarebbe più giusto vedere quest'opera come fosse a "Le Iene" in salsa western. "C'è da dire però che "Le Iene" è stato profondamente influenzato da "La Cosa" di John Carpenter", continua, "e qui c'è anche l'aggravante della neve e la condizione di questi personaggi intrappolati in una stanza che non possono fidarsi l'uno dell'altro. Ecco, diciamo che forse è questa la simbiosi più giusta che collega i tre elementi, oltre alla presenza di Ennio Morricone che anche nel film di Carpenter è autore di un brano originale". E a questo punto irrompe nuovamente Kurt Russell, che andando a strappare le risate dei presenti si limita a dichiarare: "io volevo solamente dire che sono estremamente felice di aver preso parte a due film di cui il Maestro Morricone ha scritto la colonna sonora, a due film di Quentin Tarantino e a cinque film di John Carpenter. Mi ritengo un tipo davvero fortunato".
A chi invece rilancia, dicendo se invece l'ispirazione del film sia arrivata da "Uomini Selvaggi" di Blake Edwards, Tarantino replica: "è un film che conosco, ma che non mi piace moltissimo. La scena migliore è quella del poker perché la considero una scena che potrebbe adattarsi benissimo ad uno dei miei film. So che anche Edwards considera quella scena una delle sue migliori.

In chiusura, c'è il tempo di chiedere al regista se pensa che paragonare la battaglia tra la pellicola e il digitale a quella tra cowboy e indiani sia corretto. Accostamento che Tarantino, ridendo, accetta di buon grado, con l'augurio che però la pellicola possa resistere più a lungo di quanto fatto dagli indiani. Sulla questione spinosa del momento, invece, relativa alla polemica razziale degli Oscar, il regista dice: "anche se può sembrare ovvio, mi dispiace che Samuel L. Jackson non abbia avuto la candidatura perché secondo me se la meritava. Per quanto riguarda il boicottaggio posso solo dire che io non sono stato candidato, ma se fossi stato candidato sarei andato.

Così tra le risate generali, il tempo, ci comunicano, essere giunto purtroppo al termine. Lasciando solo un piccolo spazio a quei pochi fortunati che nello sgombro generale tentano di conquistare qualche foto e qualche autografo: un ultimo spicchio di contatto e di felicità con un quartetto che più che essere odioso, potremmo fermamente considerare amorevole e frizzante.








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