The Neon Demon - La Recensione

Le donne, l'estetica, il successo.
Vanno di pari passo questi tre elementi in "The Neon Demon", alternandosi tra loro, mescolandosi, espandendosi, al punto da uscire addirittura dal confine trama per lanciare l'amo a teorie filosofiche, pressappoco appuntate e di refniana fattura.

Nascosto in quel mondo modaiolo, dove l'ammaliante Jesse di Elle Fanning, con falsa modestia e ingenuità, prova a farsi largo tra una concorrenza feroce che la vorrebbe fagocitare e stilisti e fotografi divinizzati, c'è infatti un Nicolas Winding Refn intenzionato a dar luce a quelli che, probabilmente, sono i suoi di demoni, coloro che lo tormentano ogni qual volta decide di mettersi dietro la macchina da presa: voci secondo le quali la bellezza, e quindi l'estetica, non ha rivali, e ciò che sei dentro, la complessità dell'animo, la sostanza, per intenderci, non solo non è secondaria, ma non conta proprio un bel niente. E ci si attorciglia attorno a questo concetto, il regista, con una pellicola che già dai titoli di testa comunica di voler ipnotizzare per immagini, per estetismo e fascino, con musiche in sottofondo che di soppiatto entrano a rivestire il contorno, circondando e imbambolando lo spettatore che, rapito, deve arrendersi all'incanto e all'attrazione. I discorsi, lo sguardo vago sul mondo della moda e sulla donna in generale, allora, scivolano tutti al servizio delle sue ossessioni, delle sue paure, dei suoi feticci, portando avanti un filo narrativo che riesce a malapena a stare in piedi, pur non crollando, ma in cui al suo interno non esiste, effettivamente, un contenuto consolidato, un percorso, e né men che meno un messaggio o un esplorazione. Gira a ruota libera, quindi, Refn, neanche ci prova stavolta a compiacere chi è dall'altro lato, snobba il genere horror a cui ammiccava e che sembrava corteggiare e ci va giù pesante con un esercizio di stile meraviglioso e lucido, quanto sordo e fine a sé stesso.

C'è coerenza, tuttavia, tra il suo modo di fare e l'andamento del suo film, una coerenza assoluta, addirittura, che forse contraddire avrebbe giovato da una parte e danneggiato dall'altra. Perché la psichedelia, i colori, il prodotto finito che "The Neon Demon" invia sullo schermo è - secondo teorie ovviamente campate per aria dal sottoscritto - la risposta del regista di "Drive" all'altro spaccato di sé: quello sbocciato dopo il successo roboante e inaspettato di quel film e stuzzicato improvvisamente dalla popolarità e dai consensi trasversali di critica e pubblico. Quel personaggio - visto in definizione nel documentario "My Life Directed By Nicolas Winding Refn" diretto dalla moglie (a cui questo film è dedicato) - dopo i contrasti (umani) sviscerati nella lavorazione di "Solo Dio Perdona" deve aver avuto un epilogo non documentato, una risoluzione in cui, dopo una lotta viscerale con la sua crisi di personalità (un po' come accade qui alla Fanning), ha preferito concedere la meglio al male minore, quindi alla sopravvivenza e al consecutivo fregarsene provocatoriamente di tutto e di tutti.
Svolta assai meno splatter (anche se quella di Refn metaforicamente un pochino splatter pure lo è) di quella che, invece, prende, poi, "The Neon Demon", che magari per salvarsi leggermente da un egocentrismo palese, cerca in extremis di riparare ai danni con un twist che, comunque, non gli cambia né pelle e né carattere.

Una scatola vuota (o perlomeno contenente del materiale di poca consistenza), insomma, o meglio, una scatola vuota che però non si riesce a smettere di fissare tanto è bella. Del resto, come viene detto nella pellicola, la bellezza non è tutto, è l'unica cosa che conta. Ma forse, questo, vale più per il mondo cannibalizzante e femminile della moda che per il cinema, in cui, a parer nostro, oltre alla bellezza fine a sé stessa, non sarebbe male avere in tasca maggiori risorse da spendere. Quelle che una volta staccato lo sguardo da quella scatola e usciti dalla stanza ti fanno venir voglia, poi, di rientrarci una seconda volta e poi una terza e una quarta.

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