Café Society - La Recensione

Café Society Woody Allen
A invecchiare come Woody Allen sarebbe da metterci la firma. Riuscire a mantenere un certo tipo di lucidità, un certo tipo di brillantezza e tenere banco a ottant'anni raccontando una storia piena di sfumature vivide, che sa benissimo cosa vuole dire, seppur non originalissima e liscia nella sua struttura, è sicuramente qualcosa di straordinario e sorprendente. Ancor di più se si pensa alla media di quel film all'anno che il regista pare non avere alcuna intenzione (o bisogno) di abbassare (anzi, tra poco esordirà con una serie tv in cui tornerà anche a fare l’attore).

Pare aver trovato un bilanciamento stabile, Allen. Quel processo di scrittura che alla sua veneranda età gli permette di elaborare il sé stesso attuale con tutte le paranoie, i dubbi e le considerazioni raggiunte, senza perdere di vista quello che è stato, che è ancora, magari, e che lo aveva contraddistinto in passato: ovvero l’ebreo impacciato, cresciuto a pane e ansia, con un innato senso dell’umorismo tagliente, cinico e dissacrante. E in questo senso “Café Society” gioca un po’ il ruolo di una carta d’identità, una semi-biografia a metà tra il vero e l’immaginario, ambientata tra Hollywood e New York, dove momenti irresistibili, esperienze di vita e sogni (infranti), si alternano e si mescolano tra loro per dare vita a quella filosofia rassegnante e assurda accettata e compresa dal regista in tutto e per tutto. Per fare ciò è indispensabile ancora una volta, quindi, l’utilizzo di una storia d’amore, quella che deve fungere, praticamente, da ago della bilancia o da specchio rivelatore, scuotendo i personaggi e mostrando loro, senza mezze misure, nel bene e nel male, quanto effettivamente vivere sia un mestiere ridicolo, non programmabile e fuori da qualsiasi tipo di controllo o sensazione che ci ostiniamo a tenere o a inseguire.

Café Society Woody AllenA pagarne le conseguenze - se così si può dire - sono il Jesse Eisenberg, alter-ego del regista, e Kristen Stewart, la segretaria dello zio produttore che lo accoglie a Los Angeles e lo aiuta ad ambientarsi lontano dalla sua famiglia e dalla Grande Mela. Tra loro l’alchimia e il colpo di fulmine è quasi istantaneo, naturale, se non fosse per la situazione sentimentale di lei, già impegnata con un altro uomo, spesso assente e indaffarato. Un triangolo sul quale “Café Society” punta i piedi e del quale si serve fino all'ultimo per abbracciare e affermare i suoi punti, rischiando anche di perdere qualcosina, probabilmente, con una seconda parte più scontata e prevedibile della prima. Nonostante la lieve ed evidente flessione però, complici soprattutto le battute sottili e potentissime, installate ordinatamente dal regista lungo la strada, la pellicola riesce a rimanere ugualmente in piedi e ad intrattenere solida fino al suo compimento, strabiliando per energia nel serbatoio e colpendo decisa, al momento giusto, quando è il turno di suonare quella nota di inquietudine e malessere che lentamente dai volti e dai corpi dei protagonisti invade anche i nostri cuori: rammentandoci di nuovo quanto la fatalità della vita - di cui siamo responsabili attraverso le nostre scelte, ma limitatamente – possa incastrarci con crudeltà in delle gabbie da cui uscire, poi, comporterebbe, comunque, dei danni a destra o a manca (ammesso che esista uscita).

Credere nella bugia di essere i padroni di noi stessi è l’errore peggiore che potremmo commettere, d'altronde. E non bastano il jazz o le luci calde, incantate e cinematografiche del technicolor per salvarci, distrarci o, meglio ancora, toglierci da tale situazione di amarezza e prigionia, così come non basta nemmeno il perdersi tra le sale lussuose, chiacchierate e festose di quella società borghese di cui si serve il titolo. Perché, come dice giustamente Eisenberg scherzando, ma dietro di lui Allen seriamente: “La vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo”. E noi, sarebbe da aggiungerci, siamo nient’altro che sue pedine.

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