Il compianto Tobe Hooper tra i produttori esecutivi forniva un barlume di speranza, la possibilità che “Leatherface” – storia incentrata sulle origini del killer armato di motosega e maschera in pelle umana, icona indiscussa del suo intramontabile capolavoro horror, “Non Aprite Quella Porta” – dovesse obbligatoriamente, per esistere, andare a seguire determinati binari, affacciandosi come prequel geneticamente parente (parente lontano, magari, ma comunque parente) di quel film che aveva rivoluzionato il suo genere nel 1974. Una speranza che, guardando i tratti della pellicola diretta da Julien Maury e Alexandre Bustillo, cade però clamorosamente, e all'istante, nell'oblio più profondo, perché se “Leatherface” è davvero figlio o nipote di qualcuno, quel qualcuno non possono essere altro che loro due.
Troppo romantici, forse, da queste parti a pensarla diversamente, a pensare che la coppia francese, già vista all'opera con il disturbante e sconclusionato “Inside (À L'Intérieur)” potesse, in qualche modo, lavorare a stretto contatto (ovviamente fino alla sua dipartita) con il regista, rispettare quella che era stata la sua poetica cinematografica, o perlomeno provare a comprenderla: offrendo al pubblico un prodotto distante da quello irritante e pornograficamente gore poi realizzato. Più che a una pellicola infatti questo “Leatherface” somiglia a una serie di sketch fastidiosi il cui scopo è sempre quello di mostrare allo spettatore la vastità di scelte percorribili se l’obiettivo è quello di uccidere cruentemente un essere umano. La psicologia costruita attorno al personaggio di Jackson, figlio di una famiglia deviata e violenta, dalla quale ancora minorenne viene portato via per tentare di salvarlo da un destino altrimenti già scritto, sembra interessare quasi per niente ai suoi autori, maggiormente stuzzicati all'idea di sconvolgere attraverso scene disgustose e il più delle volte poco sensate (come quando, durante una scena di sesso, fanno leccare ad una ragazza la testa di un cadavere in via di putrefazione), giustificate dall'espediente narrativo di un manicomio caduto in rivolta e quindi dal fatto che ad agire di fronte alla telecamera, sostanzialmente, ci siano dei pericolosi psicopatici.
Così, anziché legarsi alla larga - come era legittimo supporre - alle origini del mito, Maury e Bustillo vanno testardi per la loro di strada, che come destinazione porta a un traguardo ben preciso, ma come panorama sceglie di affidarsi alla superficialità dell'exploitation più estremo e gratuito, ovvero a quel cinema fatto di sangue, budella e sudiciume che a quanto pare sa essere molto vicino alle loro corde, sebbene, di fatto, tradisca i principi di ciò che erano stati chiamati a mettere in piedi.
Si finisce con il perdere interesse allora di fronte alla battaglia di questo ragazzo che, davvero, pare volercela mettere tutta per evitare di passare al lato oscuro, un ragazzo finito in manicomio più per prevenzione che per cura, ma circondato costantemente e suo malgrado da una follia che in “Leatherface” non risparmia neppure coloro che dovrebbero passare come esempi positivi.
Dimentichiamo presto perciò il lavoro di Maury e Bustillo, lo dimentichiamo persino quando ancora non è terminato, troppo stanchi evidentemente di lasciarci coinvolgere dall'ennesima carneficina indotta, sadica e non richiesta e dal fare dei due registi che, almeno secondo chi scrive, hanno frainteso completamente sia il genere abbracciato, sia il volume del loro talento.
Troppo romantici, forse, da queste parti a pensarla diversamente, a pensare che la coppia francese, già vista all'opera con il disturbante e sconclusionato “Inside (À L'Intérieur)” potesse, in qualche modo, lavorare a stretto contatto (ovviamente fino alla sua dipartita) con il regista, rispettare quella che era stata la sua poetica cinematografica, o perlomeno provare a comprenderla: offrendo al pubblico un prodotto distante da quello irritante e pornograficamente gore poi realizzato. Più che a una pellicola infatti questo “Leatherface” somiglia a una serie di sketch fastidiosi il cui scopo è sempre quello di mostrare allo spettatore la vastità di scelte percorribili se l’obiettivo è quello di uccidere cruentemente un essere umano. La psicologia costruita attorno al personaggio di Jackson, figlio di una famiglia deviata e violenta, dalla quale ancora minorenne viene portato via per tentare di salvarlo da un destino altrimenti già scritto, sembra interessare quasi per niente ai suoi autori, maggiormente stuzzicati all'idea di sconvolgere attraverso scene disgustose e il più delle volte poco sensate (come quando, durante una scena di sesso, fanno leccare ad una ragazza la testa di un cadavere in via di putrefazione), giustificate dall'espediente narrativo di un manicomio caduto in rivolta e quindi dal fatto che ad agire di fronte alla telecamera, sostanzialmente, ci siano dei pericolosi psicopatici.
Così, anziché legarsi alla larga - come era legittimo supporre - alle origini del mito, Maury e Bustillo vanno testardi per la loro di strada, che come destinazione porta a un traguardo ben preciso, ma come panorama sceglie di affidarsi alla superficialità dell'exploitation più estremo e gratuito, ovvero a quel cinema fatto di sangue, budella e sudiciume che a quanto pare sa essere molto vicino alle loro corde, sebbene, di fatto, tradisca i principi di ciò che erano stati chiamati a mettere in piedi.
Si finisce con il perdere interesse allora di fronte alla battaglia di questo ragazzo che, davvero, pare volercela mettere tutta per evitare di passare al lato oscuro, un ragazzo finito in manicomio più per prevenzione che per cura, ma circondato costantemente e suo malgrado da una follia che in “Leatherface” non risparmia neppure coloro che dovrebbero passare come esempi positivi.
Dimentichiamo presto perciò il lavoro di Maury e Bustillo, lo dimentichiamo persino quando ancora non è terminato, troppo stanchi evidentemente di lasciarci coinvolgere dall'ennesima carneficina indotta, sadica e non richiesta e dal fare dei due registi che, almeno secondo chi scrive, hanno frainteso completamente sia il genere abbracciato, sia il volume del loro talento.
Trailer:
Commenti
Posta un commento