Lo avevamo percepito al termine di “Smetto Quando Voglio: Masterclass” che i due sequel di “Smetto Quando Voglio”, molto probabilmente, erano inscindibili.
Da quella sensazione d’incompiutezza legata, più che a una storia da terminare, ad alcuni conti che non tornavano del tutto: tipo se ci trovassimo di fronte a un'equazione chimica spaccata in due per praticità, o per colpa di una lavagna dalle dimensioni troppo striminzite (ma palesemente partorita dal suo creatore - e quindi risolvibile - come corpo unico).
Equazione che "Smetto Quando Voglio: Ad Honorem" rende chiara e risolvibile in un battibaleno: giusto il tempo di riprendere il filo del discorso e continuare, appunto, ciò che un anno fa era rimasto in sospeso. Più che di un finale, pertanto, stiamo parlando della seconda metà di una mela che, ricongiunta, torna a riacquistare velocemente tutto il sapore e tutto il gusto precedentemente smorzato o disperso. Perché preso come monolite, il sequel diretto da Sydney Sibilia, torna subito competitivo e all’altezza (un pelo sotto, magari) dell’originale: con una trama densa e ben costruita - a cui si perdonano alcune superficialità di chiusura - a fare da scheletro, celati riferimenti a serie tv e blockbuster americani e quella dose d’umorismo, dettata da un cast assortito e (ancora) in grande spolvero (è facile accorgersi di quanto si divertano loro per primi) a cui difficilmente si resiste. Un’operazione folle, a livello cinematografico italiano, che poteva avere successo e adempimento solo se gestita e portata avanti da una banda altrettanto folle, simile se non spiccicata, forse, a quella assemblata e innescata dal Pietro Zinni di Edoardo Leo: con la differenza che il risultato finale non è la realizzazione di una nuova droga, bensì un precedente che rappresenta (speriamo) un punto d’inizio da cui la nostra industria dovrebbe ripartire.
Equazione che "Smetto Quando Voglio: Ad Honorem" rende chiara e risolvibile in un battibaleno: giusto il tempo di riprendere il filo del discorso e continuare, appunto, ciò che un anno fa era rimasto in sospeso. Più che di un finale, pertanto, stiamo parlando della seconda metà di una mela che, ricongiunta, torna a riacquistare velocemente tutto il sapore e tutto il gusto precedentemente smorzato o disperso. Perché preso come monolite, il sequel diretto da Sydney Sibilia, torna subito competitivo e all’altezza (un pelo sotto, magari) dell’originale: con una trama densa e ben costruita - a cui si perdonano alcune superficialità di chiusura - a fare da scheletro, celati riferimenti a serie tv e blockbuster americani e quella dose d’umorismo, dettata da un cast assortito e (ancora) in grande spolvero (è facile accorgersi di quanto si divertano loro per primi) a cui difficilmente si resiste. Un’operazione folle, a livello cinematografico italiano, che poteva avere successo e adempimento solo se gestita e portata avanti da una banda altrettanto folle, simile se non spiccicata, forse, a quella assemblata e innescata dal Pietro Zinni di Edoardo Leo: con la differenza che il risultato finale non è la realizzazione di una nuova droga, bensì un precedente che rappresenta (speriamo) un punto d’inizio da cui la nostra industria dovrebbe ripartire.
Pensare in grande, a lungo termine e senza nessun complesso d'inferiorità verso concorrenti oggettivamente più organizzati: scherzando e ridendo “Smetto Quando Voglio” ha fatto capire che ha bisogno di questo il nostro cinema per rialzare la testa, e che non ci manca assolutamente niente per poterlo fare. Come i ricercatori di cui racconta le gesta e che fanno di necessità virtù, anche Sibilia & Co. in questi anni sono riusciti a riunirsi intorno a un tavolino tirando fuori una strategia capace di rivoluzionare la loro vita, in primis, ma anche di abbattere diversi muri relativi all'industria filmica nostrana, che ormai a stento potranno essere rialzati o ricostruiti. Un miracolo che, da solo, basterebbe a conceder loro tanto di cappello, ma probabilmente è altrettanto vero che nulla di ciò sarebbe stato plausibile se il progetto globale non avesse portato con sé anche una sostanza per nulla indifferente di contenuti: rinnegando con veemenza la commedia italiana recente - confezionata e trita - per (ri)abbracciare quel modello considerato una volta tradizionale, seppur corretto però da qualche leggera, ma legittima contaminazione.
Lo scombussolamento che Pietro Zinni e la sua banda, allora, hanno creato nella finzione dentro questa Roma dai colori saturi e simbolo di un'Italia in crisi che cerca di sbarcare il lunario, lo ha fatto di rimbalzo anche un franchise che, in principio, avrebbe dovuto affacciarsi in punta di piedi. Un franchise che con la stessa casualità dei suoi protagonisti si è trovato poi a dover gestire una situazione più grande di lui, non perdendosi d'animo e scorgendo sempre e in ogni situazione il modo per sfangarla a dovere.
Vincendo la sua scommessa contro ogni pronostico che - decontestualizzando anche una battuta del film - lo vedeva se non perdente, al massimo pareggiante.
Trailer:
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