Tre Manifesti A Ebbing, Missouri - La Recensione

Tre Manifesti A Ebbing, Missouri Film
Un altro passo.
E’ quello che ha Martin McDonagh quando scrive, quando caratterizza i suoi personaggi, quando sciorina la sua ironia ficcante e sovversiva allo stesso tempo, e quando riesce a imprimere in modo nitido la sua visione del mondo, facendola sembrare, lì per lì, distorta ed estrema, ma poi, all’improvviso, indiscutibilmente centrata, schietta, autentica.
Lo aveva sperimentato - con ottimi risultati - su scala più stretta nei precedenti “In Bruges” e “7 Psicopatici”, concentrandosi su un microcosmo che andava, via via, aumentando di proporzioni, accennando già da allora a un’evoluzione definitiva che è un po’ ciò che va a rappresentare questo “Tre Manifesti A Ebbing, Missouri”.

Perché stavolta McDonagh, pur fingendo un salto proporzionato, in linea con quelli ostentati in precedenza, ne fa in realtà uno molto più lungo che va ad accerchiare una cittadina – quella di Ebbing, nel Missouri, citata nel titolo – all’interno della quale un’azione (che poi tecnicamente è una reazione) finisce per scatenare una serie di reazioni, uguali e contrarie, di complicata previsione, contenimento e gestione. Tutto parte dall’intuizione di una madre rabbiosa che decide di affittare tre cartelloni pubblicitari abbandonati per provocare, legalmente, lo sceriffo di zona in merito alle indagini, irrisolte, su sua figlia stuprata-mentre-moriva da un colpevole che, dopo sette mesi, a quanto pare, ancora tarda a uscire fuori. Colpo basso, inaspettato, che lascia di sasso, letteralmente, ogni membro della polizia locale: e non tanto per via di un lavoro eccelso, non apprezzato dalla donna, quanto per un capo gravemente malato e stimato, tirato in ballo in prima persona che, non solo loro, vorrebbero proteggere e tutelare dalle diffamazioni. Ciò porterà, dunque, all'inizio di una guerra psicologica fatta di nervi e di tensioni, dove il razzismo, la violenza e l’ipocrisia di una comunità non tarderanno a venir fuori e dove la rabbia non farà altro che portare con sé altra rabbia, alzando maggiormente l’asticella di una tregua - o di una pace - a cui nessuno pare volere ambire.

Tre Manifesti A Ebbing, Missouri McDormandApparentemente è un luogo che fatica a scrollarsi di dosso le reminiscenze di una Storia e di una cultura sbagliata, l’Ebbing in cui è ambientata la vicenda; uno di quei luoghi americani dove il tasso di famiglie armate è ai massimi storici, i figli crescono per la strada - e quindi con il pelo sullo stomaco - e ai genitori piace comportarsi da figure autoritarie per non perdere mai polso all’interno delle mura domestiche. Un quadro della vicenda che, visto alla giusta distanza, non si discosterebbe molto da quella che poi è la verità, ma che non tiene conto, tuttavia, di tutto quel lato universale seminato da McDonagh che fa della sua pellicola uno dei ritratti più nitidi, efficaci e pungenti dell’epoca che stiamo vivendo.
La Ebbing (un po' western) in cui si muove una Frances McDormand straordinaria - madre ferita e implacabile, disposta a combattere sola contro il mondo per avere risposte che comunque non riusciranno a placare i suoi dolori - infatti potrebbe trovarsi ovunque: potrebbe essere da qualche altra parte, sempre in America, oppure altrove, ma non smetterebbe lo stesso di portare con sé quell’ostilità di fondo che in “Tre Manifesti A Ebbing, Missouri” brucia veloce e potente come benzina sotto fiamma di un accendino. Questo perché l’intolleranza, il rispetto e la sete di sangue, oggi, è diventata, per certi versi, parte integrante di una quotidianità spaventosamente normale, una quotidianità alla quale abbiamo cominciato ad abituarci, a convivere, arrendendoci ad essa un po' come fa Woody Harrelson con la sua centrale di polizia piena di impresentabili, che licenziare è inutile perché tanto in giro non c'è di meglio.

Eppure in mezzo a un negativismo cavalcante, dove si gioca a rilancio e alzando ogni volta la posta per colpire più duro, anche un cinico-furbacchione, apparentemente senza cuore, come McDonagh ha bisogno di piantare un fiore; di farlo in mezzo alla cenere, sia chiaro, senza rinunciare quindi alle sue battute caustiche (di quelle che ridi di gusto, ma con amarezza), alle vittime e alla possibilità che tutto vada in malora ugualmente. Perché, in fondo, a lui di darci il contentino non gli interessa, la priorità è la storia, la sua direzione, la coerenza.
Del resto lo avevo detto, no? Un altro passo.

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