The Post - La Recensione

The Post Spielberg
Dell’etica e della morale che ruotano attorno al giornalismo, alla sua divulgazione e a coloro cui spetta il compito di fare in modo che tale mestiere continui ad avere, in eterno, senso, peso e importanza, ce ne aveva parlato con spietata acutezza e spessore la serie televisiva scritta da Aaron Sorkin, “The Newsroom”. Per cui non è una sorpresa - come neppure è sbagliato – ammettere che il “The Post” di Steven Spielberg arrivi, da un certo punto di vista, in netto ritardo, nel ribadire grossomodo gli stessi concetti, gli stessi ostacoli e non aggiungendo nulla neppure in merito alla piaga moderna delle fake-news che, ultimamente, - e soprattutto in America – sta danneggiando un servizio già di per sé in grande difficoltà.

Tuttavia è anche vero che quella di "The Post" era una storia che non poteva non essere raccontata, una storia che, si, arriva in ritardo, ma che cronologicamente contribuì a dare il e fu fondamentale a costituire quel deontologismo che, poi, Sorkin, di recente, ha sentito, appunto, il bisogno di riprendere, evidenziandone la totale o parziale scomparsa. Non a caso quella di Spielberg è una pellicola orientata a muoversi verso il centro, a camminare dritta verso il nucleo, tra quei salotti dove gli editori sedevano allo stesso tavolo e partecipavano alle stesse feste dei politici, intrecciando legami intimi che, in qualche modo, creavano conflitto d’interessi nell’istante in cui bisognava decidere di pubblicare o meno una notizia volta ad attaccare, non più l’operato di un governante, ma praticamente di un amico. Siamo nel 1971, infatti, e l’America amministrata dal Presidente Nixon viene sconvolta da un articolo pubblicato sul Times, relativo ai cosiddetti Pentagon Papers: vale a dire dei documenti classificati e top secret - divulgati illegalmente, quindi - nei quali si evinceva, in maniera piuttosto chiara, che se le truppe americane non erano ancora state richiamate dal campo di battaglia, il motivo non era associato ai progressi ottenuti e per cui valeva la pena fare dei sacrifici - come dichiarato in via ufficiale - ma al semplice orgoglio di uno Stato arrogante che proprio non ci stava a fare la figura del perdente.

The Post Hanks StreepNon appena, perciò, la superficie di questo barile cominciò a essere raschiata, il governo americano pensò bene di intimidire e bloccare la fuoriuscita delle notizie, aprendo - di fatto - l’enorme quesito legato alla libertà di stampa e quindi – per dirla alla Spielberg – alla difesa della democrazia: che poi è l'argomento che interessa maggiormente a "The Post", soprattutto perché ad avere quello che potremmo metaforicamente chiamare il pulsante rosso sulla scrivania, capace di sganciare la bomba, in quel caso fu una delle persone più improbabili possibili. Perché toccò alla Katharine Meyer Graham di una stratosferica Meryl Streep – che di amici al governo ne aveva non pochi – decidere se continuare o meno ciò che al Times era stato proibito. Spettò a lei, donna proprietaria di un piccolo giornale locale - il The Washington Post - , scegliere se mettersi contro Nixon, salvando il diritto d'informazione, ma rischiando la chiusura, oppure se abbassare la testa, cedere al potere e dare ragione a chi quel ruolo di Capo ereditato dal padre, si ostinava a non riconoscerglielo.

E sta tutta qui, allora, l'intera forza e l'intera potenza della pellicola di Spielberg, nella forma classica, rigorosa ed emozionante con la quale racconta gli eventi di un verdetto complicato e rischioso che vale la Storia, il futuro e la libertà di un paese, come dei suoi cittadini. Un qualcosa che all'apparenza, oggi, può sembrare facile, indubbio da gestire, ma che per rendere tale è servita l'intera famiglia di una redazione disposta - in parte, almeno - a mettere a repentaglio una carriera e, forse, anche l'incolumità; e questo pur di permettere alla verità di farsi largo, non restando sepolta sotto la tirannia di una politica che deve sempre ricordarsi di dover restare al di sotto e al servizio dei suoi cittadini.

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