Steven Spielberg è uno di quei registi, più unici che rari, capaci di passare in quattro mesi da un film come “The Post” a un altro, come “Ready Player One”. Un autore poliglotta, che padroneggia la lingua del cinema classico americano allo stesso modo di come sa fare con quella d’intrattenimento, riuscendo in entrambi i casi, non solo a farsi capire, arrivando a chiunque, ma anche a tenere banco, conquistando la folla.
Se con Meryl Streep e Tom Hanks, allora, per fare ciò aveva bisogno di utilizzare un’esposizione formale, equilibrata, essenziale, con la trasposizione del romanzo di Ernest Cline la condizione si ribalta dal giorno alla notte, anzi, sarebbe il caso di dire dalla realtà alla finzione. Perché non è un mistero che in “Ready Player One” tutto cominci da un visore, dalla realtà aumentata di un mascherino che ti proietta in un mondo inesistente che però è assai migliore e conveniente di quello che nel 2045, ipoteticamente, potrebbe aspettarci. Lo dice il giovane protagonista Wade Watts quando prova a farci entrare nel quadro della situazione, nell'ottica di un’epoca in cui a nessuno interessa più risolvere i problemi, ma fare finta che questi non esistano, rintanandosi nell'immaginazione di un visionario - forse superiore a Steve Jobs - che ha saputo dar vita ad un luogo come Oasis, in cui tutti vogliono connettersi per quello che si può fare, restandoci, però, per tutto quello che si può essere. Una frase simbolo in cui risiede il senso integrale dei motivi che hanno portato uno come Spielberg ad impugnare le redini di un progetto che in mano a chiunque avrebbe assunto derive prettamente spettacolari, con il rischio di qualche riflessione superficiale e rattoppata, legata alla società moderna e al suo rapporto con la tecnologia, da inserire a margine: nulla a che vedere, insomma, con il rimpasto meraviglioso, esaltante e a regola d’arte con il quale, alla fine, abbiamo avuto il piacere di fare i conti.
Era dai tempi di “Avatar” infatti che al cinema non si vedeva una pellicola così altamente spettacolare, di quelle che sanno prenderti per mano, catapultarti al centro del viaggio e non mollarti mai neppure per un secondo, restandoti piantata in testa perennemente, per giorni, come se stessi ancora vivendo quelle avventure e quelle emozioni a prescindere dallo schermo o dalla magia di un visore (o un occhiale 3D). Merito di un lavoro sull'estetica, sull'immaginario e sui riferimenti anni ’80 che Spielberg riesce ad effettuare su larga scala e trasversalmente; potremmo quasi paragonarlo a Dio per come plasma a sua immagine, somiglianza e gusto un universo che è un continuo fiorire di easter eggs, ammiccamenti e ironie a musica, videogiochi e cinema di quegli anni: con una sequenza in particolare (ma facciamo due, magari) di cui preferiamo non anticipare nulla, tranne che è ispirata ad un noto cult del grande schermo e che, probabilmente, vi friggerà il cervello per quanto è assurda, geniale e sbalorditiva (ok, se proprio volete un indizio, posso farvi il nome di Stanley Kubrick). Ma la bellezza e la compiutezza di “Ready Player One” staziona soprattutto nel suo calore e nel suo spirito che, nonostante la muscolatura virtuale-pesante e la sua pelle spesso simile a quella di un Anime giapponese, non cessa mai di ostentare lineamenti e tratti di spielbergiana memoria, abbracciandone in toto tendenze e crismi.
In questo modo - facendoci sentire come ci si sente sulle montagne russe - quello che doveva essere - ed è, poi - un film di puro intrattenimento, riesce contemporaneamente anche ad esprimere idee e pensieri su dove stiamo andando, dove rischiamo di arrivare e quali sono i valori che dovremmo e varrebbe la pena recuperare. Tutto senza stare lì a puntare il dito, o a farci la paternale. Tutto attraverso il potere di quello strumento affascinante quanto abusato. Tutto perché dietro la macchina da presa - signore e signori - c’è un poliglotta, un maestro e un fuoriclasse come Steven Spielberg.
Se con Meryl Streep e Tom Hanks, allora, per fare ciò aveva bisogno di utilizzare un’esposizione formale, equilibrata, essenziale, con la trasposizione del romanzo di Ernest Cline la condizione si ribalta dal giorno alla notte, anzi, sarebbe il caso di dire dalla realtà alla finzione. Perché non è un mistero che in “Ready Player One” tutto cominci da un visore, dalla realtà aumentata di un mascherino che ti proietta in un mondo inesistente che però è assai migliore e conveniente di quello che nel 2045, ipoteticamente, potrebbe aspettarci. Lo dice il giovane protagonista Wade Watts quando prova a farci entrare nel quadro della situazione, nell'ottica di un’epoca in cui a nessuno interessa più risolvere i problemi, ma fare finta che questi non esistano, rintanandosi nell'immaginazione di un visionario - forse superiore a Steve Jobs - che ha saputo dar vita ad un luogo come Oasis, in cui tutti vogliono connettersi per quello che si può fare, restandoci, però, per tutto quello che si può essere. Una frase simbolo in cui risiede il senso integrale dei motivi che hanno portato uno come Spielberg ad impugnare le redini di un progetto che in mano a chiunque avrebbe assunto derive prettamente spettacolari, con il rischio di qualche riflessione superficiale e rattoppata, legata alla società moderna e al suo rapporto con la tecnologia, da inserire a margine: nulla a che vedere, insomma, con il rimpasto meraviglioso, esaltante e a regola d’arte con il quale, alla fine, abbiamo avuto il piacere di fare i conti.
Era dai tempi di “Avatar” infatti che al cinema non si vedeva una pellicola così altamente spettacolare, di quelle che sanno prenderti per mano, catapultarti al centro del viaggio e non mollarti mai neppure per un secondo, restandoti piantata in testa perennemente, per giorni, come se stessi ancora vivendo quelle avventure e quelle emozioni a prescindere dallo schermo o dalla magia di un visore (o un occhiale 3D). Merito di un lavoro sull'estetica, sull'immaginario e sui riferimenti anni ’80 che Spielberg riesce ad effettuare su larga scala e trasversalmente; potremmo quasi paragonarlo a Dio per come plasma a sua immagine, somiglianza e gusto un universo che è un continuo fiorire di easter eggs, ammiccamenti e ironie a musica, videogiochi e cinema di quegli anni: con una sequenza in particolare (ma facciamo due, magari) di cui preferiamo non anticipare nulla, tranne che è ispirata ad un noto cult del grande schermo e che, probabilmente, vi friggerà il cervello per quanto è assurda, geniale e sbalorditiva (ok, se proprio volete un indizio, posso farvi il nome di Stanley Kubrick). Ma la bellezza e la compiutezza di “Ready Player One” staziona soprattutto nel suo calore e nel suo spirito che, nonostante la muscolatura virtuale-pesante e la sua pelle spesso simile a quella di un Anime giapponese, non cessa mai di ostentare lineamenti e tratti di spielbergiana memoria, abbracciandone in toto tendenze e crismi.
In questo modo - facendoci sentire come ci si sente sulle montagne russe - quello che doveva essere - ed è, poi - un film di puro intrattenimento, riesce contemporaneamente anche ad esprimere idee e pensieri su dove stiamo andando, dove rischiamo di arrivare e quali sono i valori che dovremmo e varrebbe la pena recuperare. Tutto senza stare lì a puntare il dito, o a farci la paternale. Tutto attraverso il potere di quello strumento affascinante quanto abusato. Tutto perché dietro la macchina da presa - signore e signori - c’è un poliglotta, un maestro e un fuoriclasse come Steven Spielberg.
Trailer:
Intrattenimento puro e ha funzionato per noi, ci siamo divertiti un sacco!
RispondiEliminahttps://vengonofuoridallefottutepareti.wordpress.com/2018/04/05/ready-player-one-divertentissimo/