Roma - La Recensione

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La Roma del titolo fa riferimento al quartiere Colonia Roma, di Città Del Messico: una zona elegante, abitata da famiglie benestanti e costituita da grandi palazzi e case di lusso, come quella in cui vive la famiglia di cui seguiamo le vicende, attraverso gli occhi della domestica mixteca, Cleo.
Occhi che, però, in realtà, sono quelli del regista Alfonso Cuarón, che proprio lì è cresciuto e che con “Roma” da l’impressione di voler ricordare, vagamente, un periodo molto significativo della sua vita, come del (suo) paese.

Troppo piccolo, all’epoca, per avere memoria nitida, Cuarón si affida a quegli eventi che, come si dice in gergo, ti segnano, ti lasciano cicatrici. Momenti chiave di un’infanzia apparentemente facile e in discesa, sgretolata e scossa dall'addio di un padre fedifrago e non presente che getta nello scompiglio l'equilibrio generale e la serenità di una madre, impreparata a condividere la notizia con i suoi quattro figli. Questo mentre, in primo piano e in contemporanea, scorre la disavventura della loro domestica - rimasta incinta di un uomo che fugge via non appena viene a sapere della notizia - e sullo sfondo, il Messico, sta inviando le prime scosse – politiche e naturali – di un cambiamento, ormai, alle porte. Non si può certo dire, quindi, che gli manchino le ambizioni a “Roma”; le specifiche per affacciarsi come un affresco, come il manifesto di un momento storico cruciale che, casualmente o meno, va a fondersi con le vite dei protagonisti che racconta, diventandone quasi corpo unico e inscindibile. Un film esteticamente abbagliante, seducente, alla stregua di come a livello tecnico il suo regista riesce a non smentirsi, azzeccando i tempi e le punteggiature della narrazione: tinteggiata da quel bianco e nero elegante e accurato, in grado di restituire in un baleno la sensazione di un tempo passato mista all’essenza di una rievocazione in essere.

Roma NetflixNon è l’aspetto formale, infatti, il punto debole della pellicola, e men che meno quello legato alla cronaca: dove Cuarón attraverso due, tre scene nodali, senza staccarsi dalla trama principale, mette perfettamente a fuoco il cosa e il quando. Meno preciso, semmai, “Roma” lo è nell’essere capace di allestire un flusso viscerale, nello stilare quella traccia intrinseca e coinvolgente con la quale farci entrare a stretto contatto col privato di coloro che pone in evidenza. Volendo utilizzare una metafora non casuale, è un po’ come se avesse ricevuto l’ordine di potersi immergere, al massimo, fino all’ombelico; di stare sulla spiaggia, ma non poter lasciare la riva per paura di ritrovarsi, poi, a navigare verso acque troppo profonde e ardue da amministrare. Un paradosso, insomma, se pensiamo che è proprio nell’attimo in cui questo accade – e stavolta non è una metafora - che il film registra, in assoluto, il suo squillo più alto ed espressivo: con una sequenza potente abbastanza da farsi simbolo, che è impossibile lavare via.

Ma quando entri sul personale, quando ti metti a scavare recuperando pezzi della tua esistenza, lasciandoti guidare dalla malinconia, incappare in impacci da giusta distanza forse è un incidente calcolato, tollerabile. Cuarón, purtroppo, non ha fatto eccezione, e sebbene la sua resti, comunque, un’opera considerevole, da queste parti speriamo di rivederlo presto, maggiormente lucido, in un progetto, magari, un pochino meno confidenziale.

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