La Belle Époque - La Recensione

La Belle Époque Film
La fuga dalla realtà, la voglia di staccare la spina ed entrare a far parte di un’altra epoca, non è argomento nuovo, al cinema. Basti pensare al “Midnight In Paris” di Woody Allen, che affrontava tale espediente per parlare di noi in maniera filosofica, cinica, ma pure maledettamente azzeccata e beffarda. Una complessità che al regista Nicolas Bedos – che si serve dello stesso espediente – non passa neppure per l’anticamera del cervello di provare a imitare, o a raggiungere, perché in fondo si può essere efficaci (e apprezzati) anche se il nostro unico scopo è quello di portare a casa una commedia romantica assai piacevole, capace di catturare l’attenzione dello spettatore dal primo all’ultimo fotogramma.

Un lavoro – per niente facile e scontato – che “La Belle Époque” mette in pratica con una scioltezza e con un’abilità a dir poco disarmanti. Un po’ come riesce a fare anche il personaggio di Guillaume Canet quando un cliente si affida alla sua impresa – pagando fior, fior di quattrini – per vivere (o rivivere) una serata ispirata a un periodo storico specifico, o a un momento particolare della sua vita: come capita al Victor di Daniel Auteuil che, messo fuori casa dalla moglie Fanny Ardant, decide di sfruttare il regalo del figlio rivivendo il primo incontro con lei, avvenuto negli anni ’70. La rievocazione di un ricordo che - vuoi per la perfetta ricostruzione avvenuta attraverso l’uso di schizzi accurati, da lui eseguiti e consegnati, vuoi per la bravura e la bellezza di un’attrice come Doria Tillier nei panni della (ex?) moglie - diventa per l’uomo un rifugio sicuro a cui aggrapparsi e nel quale voler tornare tutte le sere. Una sorta di effetto collaterale (calcolato?) dell’esperienza che, se da una parte non fa altro che confermare una crisi di mezza età in corso, dall’altra si fa miccia per una reazione alla stessa, in qualche modo utile a riattivare il brio di un’esistenza (o forse due) che pareva spenta.

La Belle Époque BedosGuardare al passato per capire il presente (e il futuro).
Fa questo sostanzialmente, Bedos, per tendere una mano ai suoi protagonisti: che nel presente ci stanno, ci vivono, ma si trascinano, oppure restano in piedi a fatica; e quindi disperatamente bisognosi di tornare al passato per riuscire a trovare quelle risposte che cercano e non riescono a captare. Per farlo, l’unico espediente è quello di alterare la realtà, di miscelarla alla finzione: replicando fedelmente (o quasi) i momenti salienti di un innamoramento capace di creare scompiglio e disordine emotivo, non solo nel cuore del diretto interessato, ma pure in parte del (lungo) cast, costretto a stare al gioco e a ruotargli attorno. Perché “La Belle Époque” tiene tantissimo anche a mettere a confronto i figli coi genitori: generazioni diverse, con cervelli diversi – ma con problemi simili – che possono coesistere e condividere, tra loro, i rispettivi bagagli, donandosi ognuno quel raro pezzettino di saggezza di cui fare tesoro.

Il punto d’arrivo, allora, è palesemente la preoccupazione ultima di Bedos: che non nasconde l’amore per i suoi personaggi, come nemmeno per le loro storie d’amore appassionate e irrisolte. Una manifestazione d'affetto pari solo a quella che la sua pellicola mostra per il cinema, il teatro e lo spettacolo in generale, che onora ed esalta con una scrittura vivace, ironica, priva di virgole fuori posto e dalla quale si resta ammaliati.

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