Star Wars: L'Ascesa di Skywalker - La Recensione

Star Wars: L'Ascesa di Skywalker
Era tutto lì, scritto.

Mesi e mesi (anni?) a immaginare come sarebbe potuta finire la nuova saga di “Star Wars”; quali colpi di scena ci avrebbe riservato, quanto ci avrebbero spiazzato e, soprattutto, fatto commuovere. Avevamo perso il conto delle supposizioni, delle teorie, delle varie letture prodotte dai fan che giravano in rete, o delle conversazioni private di chi non riusciva a smettere di fantasticare: di anticipare i risvolti, di arrivare prima alla soluzione, azzardando qualche carpiato, magari.
Quando invece era tutto lì, scritto.

Non da sempre, forse, sicuramente da “Gli Ultimi Jedi” in poi. Da quel film che ci aveva provato a prendere una strada diversa, salvo scatenare le ire di quello zoccolo duro che non gli ha perdonato – ancora – nemmeno un briciolo della sua – sana – anarchia. Una rivolta che una major – che proprio su quelle persone punta per guadagnare col brand – come la Disney non può permettersi di sottovalutare o ignorare, e allora ecco che tutto deve ricominciare a prendere una forma specifica, a tornare in riga, diventando praticamente – appunto – già scritto, obbligato. E il nome perfetto per fare in modo che ciò avvenga senza troppi scossoni, ma anzi attraverso una guida sicura, creativa e – perché no – furba, non poteva che essere quello di J. J. Abrams: l’uomo capace di incarnare, contemporaneamente, le vesti di appassionato, riparatore e democristiano. Con lui al comando “Star Wars: L'Ascesa di Skywalker” assume le caratteristiche di un prodotto in grado di garantire uno spettacolo di medio-alto livello, che soddisfi le richieste del suo pubblico di riferimento; di correggere gli “errori” commessi dal collega Rian Johnson nel capitolo precedente, aggiustando magistralmente quelle che erano state determinate scelte, e dulcis in fundo, di solleticare le corde emozionali degli spettatori senza, di fatto, prendersi alcun rischio che possa andare a scuoterli eccessivamente: una filosofia da colpo al cerchio e alla botte che non altera mai l’equilibrio (della forza della pellicola).

Star Wars: L'Ascesa di SkywalkerUn terzo capitolo, insomma, che si presenta come di chiusura, ma che dimentica a casa – o chissà in quale galassia lontana, lontana – la personalità. Quella che ti permette di resistere negli anni e nei decenni a venire; di affermarti, di consacrarti trilogia degna di quella pesante etichetta di cui ti fai carico e vanto. E per arrivare a questo, per conquistare una posizione simile, a volte è necessario osare; come fece Johnson – di cui, lo ammetto, ho sentito la mancanza, in scrittura – è necessario assumersi delle responsabilità: al costo di sfidare quei fan che ti vorrebbero al loro servizio, salvo scaricarti poi, l’attimo successivo, quando la realizzazione di essere stati si, assecondati, ma non stupiti, prende corpo. Per cui tanto vale buttarsi, passare al lato oscuro dell'estro e – sempre tenendo conto dei principi – allargare un mondo e un immaginario che di spazio – per definizione – ne ha da vendere: e a cui non serve prendere in prestito battute da “Avengers: Endgame”, per farsi epico.

Perché, altrimenti, il rischio è quello del paradosso: la paura di agire, professata proprio da chi vuole insegnare a non lasciarsi sopraffare dalla paura.
Col risultato dello Star Wars più innocuo a cui si poteva ambire (sia come ultimo episodio che come tris-unito), che non mancherà di trovare, comunque, i suoi estimatori – temporanei, forse – ma difficilmente destinato a dettare una qualsivoglia linea futura. 

Il che, da una parte è positivo, perché da qui in avanti non ci sarà più, magari, quel peso di non potersi spingere oltre, ma dall’altra è negativo, perché c’erano tutti gli estremi per toccare vette altissime, non dissacrando – ancora? – il mito.

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