Suzanne è una sedicenne annoiata che non riesce a integrarsi coi suoi compagni e coi suoi coetanei: evita le feste, si isola dai gruppi e pure quando cerca di sforzarsi, andando contro sé stessa, i risultati che raccoglie non sono mai abbastanza buoni da farle cambiare abitudini. Da qualche giorno poi, nel teatro vicino casa, è arrivato un attore che non smette di attirare la sua attenzione, la sua curiosità: al punto da farle perdere la testa e sollecitarla a fare qualsiasi cosa pur di incontrarlo. Tra i due c’è subito chimica, sintonia, ma il problema è che ci sono anche diciannove anni di differenza.
È questa la trama di “Spring Blossom”, la pellicola che segna l’esordio dietro e davanti la macchina da presa (e da sceneggiatrice) di Suzanne Lindon, figlia d’arte del (più) famoso attore Vincent. Un piccolo dettaglio che, per forza di cose, non fa altro che alzare l’asticella del (pre)giudizio, delle aspettative, che per una ragazzina di vent'anni, alla sua prima esperienza d’autrice, possiamo dire comunque essere state ampiamente rispettate. A convincere maggiormente infatti è l’approccio spensierato, quasi incosciente e noncurante della minima pressione, col quale viene raccontato questo amore platonico – che non diventa mai carnale – tra due anime che sanno meglio di chi le guarda cosa potrebbe accadere se si spingessero fino in fondo: limitandosi, di fatto, a colmare i loro vuoti condividendo tempo, interessi e coreografie. Quest’ultime in una maniera così estemporanea e impulsiva da apparire, oltre che decisamente affascinanti (e divertenti) da vedere, una sorta di surrogato sessuale capace di restituire alla coppia l’apice di quel piacere posto fuori dall'equazione. Una trovata senz'altro originale e con la quale andare a scartare scene (di frequentazione) potenzialmente inutili e banali, comunicando immediatamente la sincronia e l’armoniosità di un rapporto che, nonostante tutto, non smette – ricordandoci la forza delle convenzioni sociali – di risultare sbagliato e destinato al capolinea.
È impressionante, allora, vedere come la Lindon non solo se la cavi egregiamente in ambo i ruoli, ma cerchi di sperimentare e di portare il suo linguaggio e le sue intuizioni in una pellicola che prova costantemente di fuggire alla routine (come i suoi protagonisti, del resto), lasciandosi trasportare dallo spirito della giovinezza e – forse – dell’impulsività. Qualche errore d’inesperienza ovviamente c’è, sarebbe inutile negarlo, eppure “Spring Blossom” gli resiste, lo schiva, restando sempre dritto e saldo sulla sua schiena. Persino quando, andando avanti, deve prendere posizione e affrontare la domanda che sin dall'inizio circola nelle nostre teste, ovvero esporsi in merito al futuro di un amore che chiaramente ha bisogno di trovare una collocazione, una definizione sostenibile nel mondo reale. Ed è l’unico momento in cui a scendere in campo sono i genitori, quell'età adulta che si era fatta da parte – facendo finta di niente – per troppo tempo (e per rispetto), chiamata in causa a tendere la mano in segno di una protezione e di un sostegno che deve esserci sempre, nonostante tutto.
Più che alla piaga dei figli d’arte, quindi, vedendo all'opera la Lindon viene da pensare alla forza della genetica, alla classe che non è acqua. In quella che è un’opera prima dolcissima e delicata e che dentro di sé racchiude le potenzialità di un talento esuberante, che vale la pena non perdere di vista.
Trailer:
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