Freaks Out - La Recensione

Freaks Out Poster

Da un certo punto di vista, “Freaks Out” rappresenta il riscatto di Gabriele Mainetti: che dopo essere stato preso per pazzo, quando andava in giro cercando di realizzare “Lo Chiamavano Jeeg Robot”, rilancia la sua follia con un progetto che, nel nostro cinema, in parecchi avrebbero giudicato irrealizzabile.
Che pazzi.

Loro, ovviamente.
Perché a vedere “Freaks Out” viene da chiedersi come mai si sia aspettato tutto questo tempo per mettersi al passo, per tirare fuori le unghie, e non tanto per quel riguarda la fondazione del cinecomic all’italiana (o all’amatriciana) – del quale potremmo pure fare a meno, volendo – quanto per anticipare quell’evoluzione di potenzialità e di immaginazione che ora, grazie alla lungimiranza e alla sperimentazione di Mainetti, è definitivamente scoperchiata. L’idea di base è quella di mescolare “Bastardi Senza Gloria” e “X-Men” per continuare a parlare degli emarginati, dei diversi, nel caso specifico, dei mostri. Quattro mostri dai poteri magici più disparati, prestati a un circo spazzato via dall’invasione dei nazisti in Italia e spaventati, dunque, da un posto nel mondo che improvvisamente faticano a individuare. Una componente fantasy bilanciata simmetricamente dall’entrata in scena dello spietatissimo pianista Franz: stella del circo tedesco, con la capacità nascosta di proiettarsi avanti nel futuro – quello che vedrà e che tenterà di evitare, non c’è nemmeno bisogno di scriverlo – e vagamente ispirato all’esuberante Colonnello Landa di Christoph Waltz. Tant’è che la sua ossessione è quella di catturare la Shosanna della storia, ovvero la Matilde di Aurora Giovinazzo che è un po’ Mélanie Laurent e un po’ la mutante Rogue: se non altro per il suo dono che le impedisce di avere contatti umani diretti.

Freaks Out Mainetti

Il successo raccolto in precedenza permette a Mainetti, allora, di avere a disposizione il budget giusto per realizzare il film che ha in testa: e in questo senso “Freaks Out” non da mai la sensazione di “aver dovuto risparmiare su quella scena, piuttosto che su quell’effetto speciale”. Con le dovute proporzioni, il suo lavoro non ha nulla da invidiare alle grandi industrie concorrenti, e compensa la mancanza di una spettacolarità strabordante con una sceneggiatura (scritta insieme al fido Nicola Guaglianone) che – e meno male – cerca di approfondire il più possibile il background di ogni personaggio (importante). Inoltre, ha il vantaggio di non farsi prendere da “manie di grandezza”; di non peccare di presunzione e mantenere quella preziosa cifra – presente anche in “Lo Chiamavano Jeeg Robot” – capace di barcamenarsi tra dramma e serietà quando è il momento, per poi stemperare con il profondamente leggero, attraverso l’utilizzo di battute in dialetto romano, utilissime a creare immediatamente l’effetto risata.

E pure se nel finale qualcosina scricchiola e, magari, si propende troppo verso il modello caos-alla-Marvel come prerogativa imprescindibile ed efficace, resta la bellezza e la solidità di un’operazione impossibile, portata a termine egregiamente. Di uno sforzo, sicuramente ragguardevole, dove il cuore, l’amore e la cultura cinematografica di Mainetti – unita a quella dei fumetti – fa la differenza. 
E a confermarcelo c’è una tempesta di citazioni e riferimenti sparsi, che sarà simpaticissimo mettersi lì a intercettare.

Trailer:

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