Un brand, un’azienda, un’istituzione che, da sola, può riuscire a prendere e a piegare le regole e il potere di un’industria che di fronte a lui si ammutolisce, s’inchina e, senza battere ciglio, obbedisce.
E obbedire significa accettare che, se il sequel di “Top Gun” s’ha da fare, s’ha da fare bene, come Cristo comanda. O, meglio ancora, come comanda Cruise.
E obbedire significa accettare che, se il sequel di “Top Gun” s’ha da fare, s’ha da fare bene, come Cristo comanda. O, meglio ancora, come comanda Cruise.
La faccia, la sua faccia – quella insolente, furbacchiona e quasi immutata nei 36 anni passati – non ce l’avrebbe messa, altrimenti, Maverick. Non sarebbe tornato a volare alto nei cieli, a sfidare i (suoi) limiti e a fare i conti col suo passato, solamente per il gusto di una passerella qualsiasi. Serviva di più. E di più significava mettersi a tavolino e scrivere una storia che fosse capace di non tradire le origini, di rispettare il culto, ma anche di guardare avanti, per esaltare la maturità e la crescita dei suoi personaggi. Una storia semplice, ma complessa, insomma: che gli sceneggiatori Justin Marks ed Eric Singer hanno saputo mettere insieme unendo la teoria scolastica del mestiere, all’epica e all’epoca dell’intrattenimento smodato. Detta in soldoni, “Top Gun: Maverick” è quanto di meglio ci si potesse aspettare da un’operazione che, volente o nolente, aveva senz’altro più da perdere che da guadagnare. Un’operazione della quale non si sentiva il bisogno, legata a un immaginario che, da tempo, ha smesso di essere in voga. Tutte penalizzazioni che, però, non sono riuscite a minare affatto l’impresa – complicatissima – di appassionare e convincere sia quel pubblico rimasto senza fiato dal mito esploso a metà degli anni ’80, sia coloro che di quel film sanno poco o niente, o comunque – (ri)vedendolo – hanno deciso di non considerarlo poi così eclatante.
E, invece, la storia di questo Tenente che si rifiuta di aumentare di grado, restando ancorato a un ruolo che lo aiuta a non affrontare il presente, e costretto da forze maggiori a riprendere in mano alcuni sospesi, è la base solida sulla quale “Top Gun: Maverick” si erge e prende quota. Lo fa tirando in ballo una sorta di paternità intricata, aggrappandosi alle responsabilità dei genitori nei confronti dei (propri) figli e, perché no, correggendo il tiro nei confronti di un romance, qui finalmente consumato, ma che nel primo capitolo era stato gestito in maniera quantomeno equivocabile, scatenando dibattiti (per maggiori informazioni chiedere info a Quentin Tarantino!). Una struttura che gli fornisce ossa resistenti sulle quali andare a montare anche i possenti muscoli di una spettacolarità pura, mozzafiato, tecnicamente impressionante: composta da ampie parentesi dedicate all’addestramento di nuove reclute – tra cui il figlio del compianto Goose, con cui Maverick ha degli attriti da sciogliere – per le quali è prevista una missione – neanche a dirlo – ai limiti dell’impossibile.
Equilibrio, quindi.
Restituito da una ricetta infallibile per la quale bisognerebbe augurarsi che chi di dovere abbia preso appunti. Abbia studiato e capito che per fare un film mainstream come si deve, oggi, non serve poi così tanto. Alla fine, basta un cuore. Quello che Cruise (e il suo fedele team) ha per il cinema, per il suo Maverick e, perché no, per l’immagine (che vuole conservare) di sé stesso.
Un cuore e, chiaramente, un cervello: funzionante abbastanza, da intuire che per soddisfare lo spettatore, a volte, non si è obbligati a fare per forza le piroette, è sufficiente salire a bordo armati di una sincera semplicità.
Restituito da una ricetta infallibile per la quale bisognerebbe augurarsi che chi di dovere abbia preso appunti. Abbia studiato e capito che per fare un film mainstream come si deve, oggi, non serve poi così tanto. Alla fine, basta un cuore. Quello che Cruise (e il suo fedele team) ha per il cinema, per il suo Maverick e, perché no, per l’immagine (che vuole conservare) di sé stesso.
Un cuore e, chiaramente, un cervello: funzionante abbastanza, da intuire che per soddisfare lo spettatore, a volte, non si è obbligati a fare per forza le piroette, è sufficiente salire a bordo armati di una sincera semplicità.
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