Gli Spiriti Dell'Isola - La Recensione

Gli Spiriti Dell'Isola Poster

Lo ha definito un break-up movie, il regista (e sceneggiatore) Martin McDonagh.
Probabilmente semplificando, perché in realtà c’è molto, molto di più dentro un film come “Gli Spiriti Dell’Isola”. 

Certo, tutto nasce da una rottura, è vero.
Quella di Colm – il personaggio di Brendan Gleeson – che da un giorno all’altro decide di non rivolgere più la parola al suo migliore amico Padraic – Colin Farrell – perché lo trova noioso. Vuole passare il tempo che gli resta alimentando le sue velleità artistiche: scrivendo musica col suo violino. Seguendo le orme di chi, come Mozart, viene ancora ricordato dopo secoli dalla sua morte. Parole brusche, parole dolorose, che un sempliciotto gentile – e noioso? – come Padraic non riesce a metabolizzare, ad accettare, cercando continuamente un confronto con l’amico che, però, lo minaccia di tagliarsi un dito per volta se non la smette di assillarlo e di interagire con lui. Sembra una follia, ovviamente, ma siamo in Irlanda. Terra fratricida. Terra divisa. E, metaforicamente, la situazione, assume più credibilità di quanto potrebbe raccoglierne altrove. Tant’è che McDonagh – che poteva tranquillamente fare altrimenti – decide di ambientare il conflitto nel 1923, sovrapponendolo alla Guerra Civile che proprio in quel periodo, lontano e al riparo dall’isola mistica in cui si trovano i suoi protagonisti, stava consumando corpo e anima della nazione. Un orrore del quale riusciamo a sentire solamente gli echi – quelli delle bombe, delle persone che parlano di morti e impiccagioni – ma che, di riflesso, e nel suo piccolo, intravediamo racchiuso tutto nella parabola di questa (non) amicizia.

Gli Spiriti Dell'Isola Gleeson

Col black humour che lo contraddistingue e la lucidità di scrittura che lo ha reso uno dei migliori drammaturghi contemporanei, allora, McDonagh compie il piccolo miracolo di tirar fuori un film gigantesco da uno spunto minuscolo e, a dir poco assurdo. Il capriccio (stupido ed eccessivo) di un uomo, diventa un’opportunità per ragionare sulla vita, sul nostro essere di passaggio e sul bisogno (o l’illusione) di voler lasciare una traccia ai posteri. La disperazione di Colm e la sua follia, trovano un contraltare perfetto nella gentilezza e nella semplicità di Padraic (un Colin Farrell impressionante, miracolosamente svuotato di fascino e di carisma): il primo vuole di più, il secondo si accontenta. Nel mezzo, a fare da ago della bilancia, il personaggio di Siobhan, sorella di Padraic (affidata ad una bravissima Kerry Condon): che rappresenta un po’ il pragmatismo e il realismo con cui si prova a far riavvicinare e riflettere gli improbabili duellanti, mostrandogli la via per una pace sensata e assolutamente possibile.

Ma si sa, il buon senso e la logica, così come i concetti religiosi e spirituali, non vanno d’accordo con gli istinti e le stranezze di noi comuni mortali. Noi la quiete, la accettiamo, al massimo dopo la tempesta e, più che una quiete, forse dovremmo chiamarla armistizio.
Quel riposo legittimo e temporaneo, che fa seguito a uno sforzo, e che non esclude un eventuale ritorno a ripercussioni future.

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