L'altra sera, mentre cercavo di rilassarmi davanti alla televisione, mi è capitato di elaborare un pensiero assai futile, forse, ma per me illuminante: ovvero che Quentin Dupieux è diventato uno dei miei registi preferiti. E quando dico registi preferiti non intendo far riferimento ai migliori su piazza, a quei Maestri che hanno fatto la Storia del cinema e che quando escono in sala raramente sbagliano un film. Ma riferirmi a quel genere di registi - o in certi casi autori - che ogni volta ho grande curiosità e grande piacere di andare a vedere. Mosso dall'interrogativo di studiare cos'hanno partorito.
Così, in seconda battuta, mi sono chiesto il motivo di questo fugace pensiero e la risposta che sono riuscito a darmi, molto semplicemente, peraltro, è stata che Quentin Dupieux è uno che a me fa divertire un sacco. E mi fa divertire perché è capace di sorprendermi sempre. Anche quando quello che fa gli riesce meno, o gli riesce male (raramente). Se vado a ritroso nella memoria, infatti, io i suoi film me li ricordo tutti, vuoi per una scena, vuoi per una trovata strana, un'idea. Nessuno di loro è un capolavoro, ma ognuno di loro è originale e speciale a modo suo. E in un cinema che è sempre più vittima delle piattaforme, e quindi dello standard e dell'anonimato perpetuo, io uno che fa cinema in questo modo me lo tengo stretto. Pure se, magari, a volte, devo accontentarmi non di abbracciare un film intero, ma solo una fiammata, due.
Chi se ne frega, insomma, della perfezione, delle confezioni che quando le apri poi dentro non c'è niente, o peggio ancora una catenina d'oro realizzata in plastica. Mi rendo conto che è una filosofia ostica, sicuramente personale, però io il cinema lo preferisco quando mi trascina in territori che non conosco piuttosto che in quelli che so già come vanno a finire. Guardando un film come "Le Deuxième Acte", per esempio, che è l'ultimo firmato da Dupieux - ed è importantissimo, perché lo scorso anno gli ha permesso di aprire il Festival di Cannes - io non posso far altro che rimanere spiazzato, stupito. Perché la maniera con la quale riesce a giocare con la realtà e con la finzione è assolutamente disarmante, irresistibile. Il modo come tratta l'attualità, il politicamente corretto, le nevrosi degli attori e il mondo del cinema-tutto, fa parte di quelle strade che la retorica non sanno neppure dove sta di casa. E noi spettatori siamo li senza una bussola, un principio d'orientamento, incapaci di comprendere se l'attore in scena sta recitando, oppure sta parlando sul serio (in camera). Se quel che dice lo pensa veramente, oppure fa parte del copione. Ed è importante, visto che quello che sta facendo e quello che sta dicendo ha un peso specifico non poco indifferente.
Così, all'improvviso, tutto diventa decisamente ambiguo, spassoso, curioso da smascherare. Perché la storia di "Le Deuxième Acte", tanto per dare qualche informazione in più, è ambientata all'interno di un film in fase di realizzazione, e mostra attori e attrici che discutono e si confrontano, a volte per esigenze di copione e a volte per esigenze personali: all'interno di un set che tecnicamente resta sempre aperto, vigile su di loro. Tra l'altro il film in questione è il primo ad essere diretto interamente da un'intelligenza artificiale e potete immaginare cosa può significare ciò in termini logistici, di comunicazione e interazioni col regista (virtuale). E allora la sensazione è che Dupieux resti uno dei pochi che ancora si diverte a fare cinema, uno dei pochi a cui ancora è permesso fare cinema in questo modo (sarà per via dei costi contenuti), un lusso che, personalmente, gli invidio molto, perché gli da l'opportunità di dondolare sopra una leggerezza che traspare tantissimo in ogni suo lavoro, in ogni sua follia presa e modellata ogni volta all'ennesima potenza. Con conseguente reazione a bocca aperta da parte nostra che restiamo - giustamente - increduli e in attesa di realizzare cos'abbiamo appena visto.
E, forse, non vale solo per noi. Forse questa sensazione di mondo a parte, di cinema come isola felice, Dupiex riesce a trasmetterla pure ai suoi attori, che non è impensabile immaginare se la ridano un casino a lavorare con lui, ad assecondarlo. Basti vedere come siano cambiati i protagonisti dei suoi lavori negli ultimi anni, o, meglio ancora, basti vedere un attore serio e drammatico come Vincent Lindon muoversi in questo territorio così lontano da quello in cui siamo abituati a riconoscerlo, roba da farci sospettare di trovarci al centro di un episodio di "Ai Confini Della Realtà". Sebbene sia risaputo, poi, che certi attori così radicati nel cinema d'autore, e quindi assai rigorosi, cerchino come l'ossigeno opportunità di questo tipo che gli permettano di mettere in luce anche il loro lato comico. Spesso le chiedono, le vogliono e sono grati a chiunque accetti di accontentarli.
Perciò, pure se è evidente che "Le Deuxième Acte" non faccia parte del Dupieux migliore che possiate trovare su piazza, è comunque uno di quegli incontri che non si dimenticano e che fanno tornare a casa col sorrisetto sulle labbra. Appagati, sereni. Merito di momenti comici, dinamiche stravaganti e gag che sanno allontanarci dalla noiosa comfort-zone, condite da irrazionalità fuori di testa e dosi di genio.
E, voi mettetela come vi pare, ma di recente trovare film così è diventato merce rara, un po' come acqua nel deserto.
E, voi mettetela come vi pare, ma di recente trovare film così è diventato merce rara, un po' come acqua nel deserto.
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