Soul - La Recensione

Soul Poster
Prima di diventare il film Disney Pixar che dice di essere, “Soul” è a tutti gli effetti un film di Damien Chazelle. Il suo protagonista, infatti, è un insegnante di musica che nutre la passione e l’ossessione per il jazz, uno di quelli che quando la scuola gli comunica di volerlo prendere a tempo indeterminato si sente morire dentro, perché ha paura di dover rinunciare per sempre al sogno di affermarsi come musicista di genere. Occasione che arriva quasi in concomitanza con la proposta del posto fisso, mandandolo praticamente in estasi, al punto di non vedere un tombino, caderci dentro e…risvegliarsi in coda per l’altro mondo. 

Ed è qui che “Soul” riprende le redini della sua paternità, che smette di essere un figliastro di Chazelle, avvicinandosi biologicamente ai connotati di Pete Docter. Potremmo accostarlo ad “Inside Out” per come inventa e immagina questo mondo ultraterreno – in quel caso era la nostra mente – dove chi passa a miglior vita semplicemente è destinato a chiudere il suo viaggio, oppure a diventare mentore per coloro che stanno nascendo e non sanno ancora quale sarà la loro scintilla. Regole ferree e collaudate che – esattamente come accadde per Gioia e Tristezza – verranno immediatamente eluse e fratturate dalla voglia di Joe Gardner di tornare in vita e da quella di 22 di continuare a non nascere. Esplorare l’aldilà, costruirlo e prenderlo in giro, diventa allora il passo successivo e naturale di quell'esperimento - superato - nel quale si provava a entrare nell'anatomia del nostro cervello e delle sue emozioni. Un percorso dalle trame assai più rocambolesche e improvvisate, orientato a poter contare su meno solidità e meno certezze e quindi decisamente più scanzonato dal punto di vista della creatività e del genio. Ostacoli che, nell'economia della narrazione, a fasi alterne si fanno sentire, interrompendo o rallentando un ritmo che comunque sia ha il pregio di essere battuto da uno strumentista talmente esperto, da saper perfettamente come e quando muoversi per recuperare il tempo e nascondere le sbavature. 

Soul Pixar
L’obiettivo, ovviamente, è quello di parlare delle nostre esistenze, di ciò che ne facciamo, del valore che gli diamo (conscio oppure no). Un discorso non nuovo, ma al quale forse vale sempre la pena aggiungere delle sfaccettature e dare una rinfrescata: perché basta davvero un attimo per perdersi, per oscurarsi, per ritrovarsi prigionieri di una realtà che non ci appartiene e a cui spesso permettiamo di rubare la nostra intera linfa vitale (come ci viene mostrato in una bellissima scena). E questo vale sia per chi - assorbito dal lavoro - ha smesso di dedicarsi a sé stesso, sia per chi - nonostante le certezze che crede di avere - non ha mai realizzato che tra nuotare nell'acqua e nuotare nell'oceano non c'è poi tutta questa differenza. Un concetto basilare, immediato, che Docter decide di afferrare, gonfiare e utilizzare come assist per andare a imprimere alla sua pellicola quella profondità e quella punta di commozione necessarie a chiudere il cerchio. 

Un cerchio che lascia qualche riserva, magari, per come accarezza la tematica del talento e “dell’essere nato per…”, ma che non delude affatto sotto l’aspetto dell’intrattenimento, della maestria esecutiva e della saggezza che ci tiene a elargire.

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