Non so se ci avete mai fatto caso, ma a volte – e quando dico a volte significa piuttosto spesso – succede che in certi film che trattano di alcune tematiche (per lo più mi riferisco a tematiche di tipo razziale), gli sceneggiatori (o i registi, oppure entrambi) si appoggiano ad alcuni stereotipi, o ad alcune retoriche, che oltre ad essere diventate ormai fastidiose (perché trite e ritrite), rischiano anche di risultare ridicole e controproducenti. Perché fuori tempo, magari, o perché figlie di una furbizia per niente costruttiva.
Questo è un mio personalissimo punto di vista, ovviamente, ma l’ho trovato decisamente in linea con la battaglia sacrosanta, ma impossibile di cui si fa carico lo scrittore e professore universitario di letteratura Monk, che in "American Fiction" è interpretato da un meraviglioso Jeffrey Wright. Stanco, infatti, di sentire gli editori respingere il suo nuovo romanzo, perché a detta loro “non abbastanza nero”, una sera decide di scrivere una storia di getto, riempiendola di tutto ciò che “i bianchi” (ma pure “i neri”, alla fine) pretendono di trovare all’interno di un libro che promette di trattare questioni legate alla comunità e alla cultura afroamericana. E con la complicità del suo agente, spacciandosi per uno scrittore anonimo, evaso di prigione, invia il manoscritto in giro, attirando su di sé un'attenzione paradossale e mai vista prima. Inutile dire che lo scherzo – se così vogliamo chiamarlo – sfugge di mano a entrambi e che Monk sarà costretto a immedesimarsi nella parte, tradendo i suoi stessi principi, per incassare le cifre astronomiche che gli vengono offerte e pagare le cure di sua madre malata di Alzheimer.
La verità, allora, è che si ride molto con la pellicola scritta e diretta da Cord Jefferson, e si ride perché riesce a cucire una satira acutissima che – e grazie al cielo – non ha nessuna paura di farsi beffe dei comportamenti e del linguaggio che oggigiorno osserviamo e subiamo ovunque: che sia sui social, o in televisione, oppure al cinema, o nella letteratura. Ovvero la deriva di una società che sta perdendo sempre di più l’abitudine (e l’intelligenza) a contestualizzare – vedi il voler correggere vecchissime opere perché ora ritenute offensive – ed è convinta che basti abbracciare incondizionatamente un’ideologia come quella woke per risolvere tutti i problemi relativi alla discriminazione e migliorare le cose. Ideologia che, peraltro, ognuno tende a interpretare a proprio piacimento, dimenticando che in fondo non esiste nient’altro che un denominatore unico, l’essere umano.
Tant’è che mentre Monk cerca di sostenere la doppia identità di scrittore, recitando all’occorrenza lo stereotipo del nero malavitoso, cresciuto nel ghetto e ricercato dalle autorità, in parallelo deve tenere conto di una sorella scomparsa prematuramente, di una madre in costante peggioramento, di un fratello incapace a dare una mano e di una storia d’amore che per lo stress che sta subendo, rischia di mandare all’aria. Insomma, nulla a che vedere con l’immaginario tipico del nigger motherfucker che, secondo molti, gli apparterebbe di diritto.
Ma nonostante ciò la sua battaglia resta comunque una follia, paragonabile a quella intrapresa da Don Chisciotte: e messa in discussione – con tanto di solidi argomenti – da persone che, in teoria, avrebbero dovuto sostenerlo e pure ad occhi chiusi. E questo perché, forse, la risposta definitiva, quella che potrebbe mettere fine al caos e tracciare finalmente la giusta rotta è addirittura più complessa ed intricata del previsto. O, magari, raggiungibile a piccolissimi passi, lentamente e accettando dei compromessi.
Un po’ come succede a Monk nell’ultima scena, dove anziché puntare a vincere, o impuntarsi e basta, pur di ripartire, si accontenta di strappare un pareggio.
Trailer:
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