Pietro Marcello è uno di quei registi italiani che, quando lo nomini, è praticamente certo che nessuno lo conosce. Uno di quelli che nel nostro paese vengono etichettati come “giovani autori emergenti”, e che, probabilmente, dopo “Martin Eden”, comincerà a raccogliere quanto il suo talento merita.
Ma Pietro Marcello è anche uno di quei registi (e autori) italiani che la critica ha costantemente sostenuto, apprezzato: lodando quel suo stile fuori dagli schemi, spesso contorto e ermetico, dentro al quale sapeva mescolare benissimo massicce dosi di bellezza, poesia e libertà.
Tutte caratteristiche che questo “Martin Eden” incarna e difende, pur sapendo di doversi muovere con la responsabilità del film di finzione che è.
Non è uno sprovveduto, del resto, Marcello, sa quanto il materiale che ha tra le mani sia delicato e appartenga a qualcosa di ben definito, e non ha la minima intenzione di sciuparlo ponendo sé stesso avanti a lui. Non è uno di quei registi che – citando anche un termine usato ultimamente in ambito calcistico – potremmo etichettare come integralisti; che se ne fregano dell'opera e dei contenuti per dare priorità al loro manierismo, al loro ego: nonostante tenga a proteggere, come è giusto che sia, la sua cifra stilistica, fondendola nel migliore dei modi alla causa. La libertà più grande che si prende, allora, è quella di ricollocare il romanzo di Jack London all’interno di una Napoli che non sarà la California – come la carta vorrebbe – ma che, di certo, non impedisce di raccontare quello spaccato di Storia – il Novecento – nel quale Eden, consumato dall’amore nei confronti di una ragazza largamente più altolocata di lui, comincia a inseguire voracemente una fame di cultura e di conoscenza – che sfocia in breve tempo nel sogno di diventare scrittore – convinto ciò possa bastargli a coprire quello scarto sociale che, al contrario, chiede tutt’altre fatiche per essere conseguito (e poi, sulla sua pelle, scoprirà quali).
Ma Pietro Marcello è anche uno di quei registi (e autori) italiani che la critica ha costantemente sostenuto, apprezzato: lodando quel suo stile fuori dagli schemi, spesso contorto e ermetico, dentro al quale sapeva mescolare benissimo massicce dosi di bellezza, poesia e libertà.
Tutte caratteristiche che questo “Martin Eden” incarna e difende, pur sapendo di doversi muovere con la responsabilità del film di finzione che è.
Non è uno sprovveduto, del resto, Marcello, sa quanto il materiale che ha tra le mani sia delicato e appartenga a qualcosa di ben definito, e non ha la minima intenzione di sciuparlo ponendo sé stesso avanti a lui. Non è uno di quei registi che – citando anche un termine usato ultimamente in ambito calcistico – potremmo etichettare come integralisti; che se ne fregano dell'opera e dei contenuti per dare priorità al loro manierismo, al loro ego: nonostante tenga a proteggere, come è giusto che sia, la sua cifra stilistica, fondendola nel migliore dei modi alla causa. La libertà più grande che si prende, allora, è quella di ricollocare il romanzo di Jack London all’interno di una Napoli che non sarà la California – come la carta vorrebbe – ma che, di certo, non impedisce di raccontare quello spaccato di Storia – il Novecento – nel quale Eden, consumato dall’amore nei confronti di una ragazza largamente più altolocata di lui, comincia a inseguire voracemente una fame di cultura e di conoscenza – che sfocia in breve tempo nel sogno di diventare scrittore – convinto ciò possa bastargli a coprire quello scarto sociale che, al contrario, chiede tutt’altre fatiche per essere conseguito (e poi, sulla sua pelle, scoprirà quali).

Particolari, inclinazioni e incognite di un adattamento svincolato, allora, indubbiamente ambizioso e arduo, ma che riesce comunque a portare a casa ogni intento. Sorretto da una regia diligente e esperta e da un Luca Marinelli scrupolosissimo, abile in primis a non strappare i panni del personaggio che gli è stato affidato.
Trailer:
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