Il semplice incidente riportato nel titolo è un cane che impatta di notte su una macchina e costringe una famiglia - marito, moglie (incinta) e bambina - a chiedere aiuto per rimettere a posto il motore e tornare a casa. A dargli una mano è un'officina presente nei paraggi, in cui lavora però anche Vahid, un uomo che, non appena sente la voce e il passo strascicato del malcapitato, reagisce spaventandosi e camuffando la sua voce. E' evidente che tra i due c'è (stata) una sorta di relazione, di conoscenza (passata). E la conferma ce l'abbiamo quando Vahid, decide di seguire lo sventurato fino a casa, tornando la mattina successiva a bordo di un furgone con l'intento di rapirlo e poi di ucciderlo. Il motivo è vendicarsi del torturatore che, qualche anno prima, lo ha umiliato e massacrato, danneggiandogli un rene. Lo stesso che, però, adesso, nel momento clou, non è più sicuro di avere lì davanti agli occhi, per via di alcuni dubbi che stanno iniziando a farsi largo.
Non c'è da stupirsi se Jafar Panahi abbia sentito la necessità di realizzare un film (splendido e potentissimo) come "Un Semplice Incidente". Un film che è profondamente politico, arrabbiatissimo, che vorrebbe lasciare aperto uno spiraglio di speranza, ma che, forse, in questa speranza non ci crede poi così tanto nemmeno lui. La prigionia del protagonista - che poi diventa quella dei protagonisti, non appena Vahid, per assicurarsi di avere in mano la persona giusta, rintraccia altre vittime che hanno condiviso quell'esperienza con lui e che potrebbero aiutarlo a trovare gli indizi che sta cercando - lui l'ha vissuta in prima persona per anni. Conosce la rigidità di un regime repressivo che non accetta propaganda, se non quella a favore, e la violenza che è disposto a perpetrare per incutere paura e tenere a bada i dissidenti. Per cui non poteva che scrivere una storia amara, implacabile, con dei civili comuni e pacifici che sentono il dovere (il bisogno) di restituire cattiveria e dolore subiti a chi gli ha rovinato la vita (per sempre). Una reazione istintiva, umana e comprensibile, ma che non può non mettere in moto anche quel dilemma etico secondo il quale, comportandosi allo stesso modo del nemico, automaticamente si rischia di diventare identici a lui (di fatto, dandogliela vinta).
E gioca su tale conflitto (una castrazione), principalmente "Un Semplice Incidente", con questo corpo immobilizzato, sedato e chiuso all'interno di un furgone che non smette di tentare un gruppo di protagonisti che, se da una parte sbava dalla voglia di farlo a pezzi, dall'altra prende tempo, quasi augurandosi di aver sbagliato uomo e non doversi macchiare di alcun delitto. Perché l'odio che covano e che sentono ribollire è di stampo reazionario, provocato da un paese che li ha traditi, manipolati (violentati), mettendoli in una posizione che non gli appartiene, che è distante anni luce dai loro valori, ma alla quale sentono di doversi adeguare per provare a stare un pochino meglio, sopravvivere (rinascere?). E la prova - o la provvidenza - con la quale Panahi, a suo modo, intende salvare l'anima e il futuro di queste persone - a cui vuole bene, è evidente - è il colpo di scena del terzo atto che, senza entrare troppo nei dettagli, li costringe a prendere una decisione importante e, quindi, a chiedersi in definitiva chi sono davvero e cosa vogliono essere.
Una sterzata (e un'azione) - inaspettata e paradossale - con la quale noi spettatori riusciamo a toglierci ogni dubbio sulle direzioni che Panahi intende prendere, pur rendendoci conto di quanto queste siano pericolose e difficili da sostenere (per i personaggi come per noi). Perché il finale del suo film è sicuramente quello più giusto e più coerente con ciò che vuole dire e che (e chi) sta raccontando, eppure è lo stesso il più terribile e agghiacciante che si possa immaginare.
Con un'inquadratura finale dilaniante e impossibile da dimenticare.
Con un'inquadratura finale dilaniante e impossibile da dimenticare.
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