Il Maestro - La Recensione

La formula è una di quelle infallibili, o quasi.
Il buddy-movie che si intreccia al viaggio on-the-road che, a sua volta, abbraccia il coming-of-age, con questo ragazzino - promessa del tennis, o aspirante tale - che viene affidato da un padre iperprotettivo, e certo delle potenzialità del figlio, a un maestro di tennis in cerca di riscatto e con un passato costellato da parziali successi, bravate e fallimenti. L'obiettivo è quello di migliorarlo, di prepararlo a vincere i tornei nazionali, dopo essersi imposto positivamente in quelli regionali. Ma si sa, lo sport è una metafora della vita e, molto spesso, il campo tende a riflettere il nostro stato (emotivo profondo) e ciò che abbiamo dentro.

Parte da qui, allora, Andrea Di Stefano, anche se sarebbe meglio dire che parte - e lo fa letteralmente - da suo padre, citato a chiare lettere, e con un pizzico d'ironia, nei cartelli che aprono la storia. C'è molto di personale, evidentemente, in questo incontro-scontro tra il Raul Gatti di Pierfrancesco Favino e il Felice - si fa per dire - del pre-adolescente Tiziano Menichelli. Due personalità che non hanno nulla in comune, che se fosse per loro avrebbero già preso strade diverse, ma vuoi per denaro (e per cura) uno, vuoi per non deludere un genitore che tra aspettative e sacrifici sta caricando di pressione l'altro, sono costretti a stare insieme e a fingere di sopportarsi. E lo fanno a colpi di immaturità, di capricci, di litigate, con il maestro - appunto - che non ce la fa proprio a concentrarsi sul suo obiettivo, correndo dietro a ogni donna e fuggendo con ogni mezzo dal suo male di vivere, e il ragazzino che, carico di rigidità e di paure, non vuol saperne di seguire le dritte dell'adulto e di attaccare l'avversario, allentare la difesa. Chiaramente, sono tutti (anche) sottotesti, indizi di difficoltà da analizzare, nodi da sciogliere, che a furia di farsi male (a vicenda) i due dovranno imparare (oppure no) ad ammettere e ad affrontare. A modo loro, magari.

E la partita che emerge è una di quelle che ricorda moltissimo le commedie all'italiana di una volta, qualcuno addirittura ha citato "Il Sorpasso" come termine di paragone, titolo con il quale "Il Maestro" ha in comune soprattutto l'influenza che il suo protagonista, inevitabilmente, avrà sul suo discepolo, o malcapitato. Sta di fatto che Favino, qui, esattamente come fece Gassman in quel frangente, si prende il film e se lo carica sulle sue spalle, ne diventa colonna portante, monolite, ancora di riferimento. Ogni scena, battuta, tono drammatico, o comico, passano e filtrano attraverso di lui: nel senso che quando non è lui stesso a farli nascere (nella maggior parte dei casi), in qualche modo, spetta comunque a lui il compito di finalizzarli, raddrizzarne la traiettoria, contenerli nei margini. In sostanza, diventa motore e cuore della storia, termometro e metronomo di risate e di leggerezza, ma pure di disperazione e di malinconia: netti contrasti di un personaggio assai complesso, che ancora non ha capito come (e se ha voglia di) stare al mondo.

Un serio pericolo per il Felice a cui deve fare da balia e che, il più delle volte, è costretto a vestire i panni (larghi) dell'adulto, per venire in suo aiuto e coprirgli le spalle. Eppure, è esattamente da queste urgenze, da questi rischi assunti a vicenda che tra i due riesce a sbocciare una sintonia, un legame fortissimo e (forse) salvifico (e incoraggiante). Quel risvolto accattivante e fondamentale che fa de "Il Maestro" un titolo che guarda da vicinissimo al cinema italiano che fu (grande), oltre che il film dal piacevole intrattenimento che senza dubbio è.

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