Personalmente, la mia scintilla con Willie Peyote è scoppiata circa un paio di anni fa. Di preciso dopo aver ascoltato - per caso? per intuizione di un algoritmo? - la prima metà dell'album, poi intitolato "Sulla Riva Del Fiume". Da lì, spinto dalla profondità (e dall'ironia) dei testi, mi è venuta voglia di fare un viaggio a ritroso nella sua discografia, affezionandomi moltissimo ad alcuni pezzi e confermando a me stesso di aver trovato un nuovo autore (italiano) che valeva la pena ascoltare e tenere d'occhio.
Per cui non sarebbe una bugia, ammettere che è per questo motivo che, ora, mi trovo qui a scrivere e a parlare di "Willie Peyote: Elegia Sabauda", il documentario che ripercorre a grandi linee la carriera dell'artista - all'anagrafe Guglielmo Bruno - entrando in punta di piedi nella sua vita privata, nel suo rapporto con la città di Torino (e col Toro) come anche in piccoli momenti (rubati), legati al fascino del (suo) processo creativo: con canzoni che nascono, cambiano e vengono stravolte. Una modalità di racconto che, sicuramente, esalterà i fan e i suoi estimatori – a conoscenza, magari, di certe cose che qui vengono sviscerate - ma con la quale il regista Enrico Bisi riesce a tirare dentro pure il potenziale spettatore medio, il neofita (di Willie Peyote, del rap e dell'industria musica in generale). E questo perché l'intenzione è quella di soffermarsi e di esplorare il lato umano dell'artista, la sua continua lotta con(tro) sé stesso, dettata dal personaggio, dalla scena (che rappresenta) e dalla consapevolezza di difetti caratteriali che, spesso, tendono più a distruggere che a consolidare quel mito di cantante (ribelle) di successo. Per fortuna a venirgli incontro e a salvargli la vita - letteralmente, in certi casi - ci ha pensato la famiglia: quella biologica, rappresentata da un padre e una madre che non si tirano indietro quando è il caso di mettere bocca, e quella musicale-acquisita che, pure, non ha problemi a redarguirlo, se l'istinto o la leggerezza lo portano a commettere errori come quello responsabile della shitstorm avvenuta durante la sua prima partecipazione al Festival di Sanremo (il peccato erano dei commenti goliardici postati su un social in cui venivano presi in giro degli artisti presenti alla kermesse).
Ed è proprio con un'intervista figlia delle conseguenze di quel gesto che Bisi decide di aprire il suo documentario, con Guglielmo che - a cuore aperto e con un pizzico di rivalsa - confessa la sua caduta libera e di essersi trovato a un passo dalla sconfitta, salvo poi riprendersi e tornare in auge più in forma di prima. Che poi è un po’ il tema principale intorno al quale "Willie Peyote: Elegia Sabauda" ruota intorno: più dei filmati d’archivio, degli aneddoti e del periodo di depressione che lo ha portato a realizzare quel disco di svolta (nonché dichiarazione d'amore), che è (stato) “Educazione Sabauda”. A seguito degli attacchi subiti (inesorabili, se vogliamo), infatti, anziché cavalcare l’onda sanremese, come avrebbe dovuto e voluto l'industria, in quel 2021 ha preferito fare un passo indietro e farsi vedere il meno possibile, rifiutando interviste e promozioni. Un treno perduto, insomma, deragliato ulteriormente per via della pandemia e di un album successivo – “Pornostalgia” – in cui le conseguenze e le influenze di questa solitudine e dell'isolamento si sono rivelati piuttosto fatali e svantaggiose. La missione, allora, era invertire la tendenza, tornare a vivere e, quindi, a scrivere e a fare musica per puro piacere, per passione, senza il carico di troppe aspettative o ambizioni: con la semplicità con cui si prepara una cacio e pepe, praticamente. Un percorso (interiore) in salita, lunghissimo, pieno di curve e di interrogativi (e di crescita), ma culminato col grande ritorno al Teatro Ariston di Sanremo e con quel "Grazie, ma no grazie" che si apprestava, sera dopo sera, a conquistare un plebiscito di consensi, spianando la strada alla versione compiuta del bellissimo "Sulla Riva Del Fiume".
Un riscatto (umano e artistico) in piena regola, insomma, degno di chi (ormai) non ha problemi a riconoscere chi è e dove vuole andare: “Io faccio rap, ballare sul palco non è la mia roba!”. Lo dice un Willie Peyote assai più centrato e allineato, in simbiosi totale con la sua città e con la sua squadra, grato del privilegio che ha nel poter fare il lavoro dei suoi sogni, circondato da gente che lo sostiene e che gli vuole bene. Lo stesso Willie Peyote con il quale ho avuto il piacere di imbattermi io un paio di anni fa, e a quanto pare non solo per via del caso, o dell'algoritmo di YouTube, ma per via di una sensibilità e una sincerità che non può passare inosservata.
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