Motherless Brooklyn: I Segreti Di Una Città - La Recensione

Motherless Brooklyn Norton
Un investigatore privato viene ucciso nel bel mezzo di un faccia a faccia con dei criminali. La sua squadra – composta da tre ex-orfani che lui stesso ha tolto dalle grinfie delle suore – resta sconvolta e addolorata, ma solo uno – il meno indicato, vista la sindrome di Tourette da cui è afflitto – ha davvero intenzione di spingersi fino in fondo per capire chi è il colpevole e fare luce su un caso, forse, più grosso del previsto e dalle mille ombre.

Torna alla regia Edward Norton – da cui mancava da diciannove anni – e per l’occasione si improvvisa anche sceneggiatore, adattando (liberamente) il romanzo Motherless Brooklyn dello scrittore Jonathan Lethem. Uno sforzo che non gli impedisce minimamente di ritagliarsi pure un ruolo da protagonista (e nemmeno facile), all'interno di un film che guarda esplicitamente al genere noir – nonostante le numerose scene diurne – ricalcando il più possibile gli intrecci, il torbido e gli intrighi politici di un classico come il “Chinatown” di Roman Polanski. Il suo Lionel – come il detective Jake di Jack Nicholson all'epoca – si ritrova, infatti, invischiato al centro di un enigma che si allarga a vista d’occhio e ad ogni indizio, attorcigliando dentro sé stesso personaggi che vanno dai bassifondi della città passando per quelli, soprannominati squali, a cui sarebbe sensato – gli dicono – non andare a mettere i bastoni in mezzo alle ruote. Ma Lionel – fortunatamente oppure no – non è uno di quelli con tutte le rotelle al proprio posto, anzi, se non fa ordine nella sua testa, lui soffre di emicrania, per cui in qualche modo è condannato a perseverare, a ricevere minacce, pugni in faccia e calci alle costole. In più, uno dei pochi vantaggi della sua condizione, è quello di riuscire a ricordare facilmente informazioni, visi, numeri e collegare pezzi del puzzle come pochi altri in circolazione: tutte aggravanti che gli impediscono, onestamente, di farsi da parte.

Motherless Brooklyn DafoeScorre, allora, e nemmeno con molta fatica, questa indagine sporca, immorale e bastarda, dove a tirare le fila – come al solito – è chi detiene il potere e chi è chiamato (o stimolato) a ruotargli attorno. Un’indagine che, nella sua complessità, tuttavia, sa sorprendere poco e aggiungere se possibile ancora meno al suo canovaccio, e nella quale viene piuttosto istintivo indovinare buoni, cattivi e che tipo di progetto finale quest’ultimi abbiano intenzione di raggiungere. Un sistema marcio americano che di certo non ci è nuovo; che fa parte dei cromosomi di una nazione abituata a esercitare potere e a coltivarne la filosofia per allenarla e, di volta in volta, migliorarla, ingigantirla. A tal proposito c’è un dialogo tra Norton e Alec Baldwin, in chiusura, che ha la forza di farsi contemporaneamente potente e agghiacciante, forse il momento più interessante e vivace di una storia ben diretta e interpretata, ma scritta (seppur in forma ordinata) con un pilota eccessivamente automatico che non trova mai il coraggio di farsi manuale e ribelle.

Siamo negli anni '50, eppure i riferimenti all'America di Trump, al suo modo di essere e di fare – e non è un caso, viene da pensare, che sia stato arruolato Baldwin, che del nuovo Presidente è imitatore praticamente ufficiale – sono azzeccati e facili da cogliere, se si ha voglia di carpirli: con discorsi relativi al razzismo, a muri, ponti e grattacieli da costruire che se ne fregano degli esseri umani, complicandone gestione e traffico. Gli intenti di Norton - e quindi la sua posizione politica, antropologica e cinematografica - sono decisamente a fuoco, meno la voglia di rischiare e di osare per poter lasciare un segno.
Quello che lascia, invece, la colonna musicale jazz che accompagna alcune scene di ballo e l'intera l'atmosfera mystery.

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