Ad Astra - La Recensione

Ad Astra Brad Pitt
Qualche giorno fa, commentando i risultati al box office americano del primo week-end, Brad Pitt – che di “Ad Astra” è anche produttore – dichiarò di non essere affatto preoccupato della partenza non a razzo del suo film; che non gli interessavano questi dati, perché la sua casa di produzione (la Plan B) nasceva proprio per non curarsi troppo del gioco dei profitti – che pure contano, sia chiaro – e dare spazio a opere capaci di poter restare nel tempo.
E a questo punto la domanda sorgeva spontanea: quella di Pitt era una risposta comoda, pronunciata per sviare la delusione di un’accoglienza tiepida, oppure “Ad Astra” è davvero un titolo di cui difficilmente ci scorderemo?

Sicuramente quella diretta da James Gray è una pellicola ambiziosa, che guarda (visivamente e non) ai modelli migliori del suo genere – non bisogna sforzarsi per intercettare i riferimenti a Kubrick, o a Cuarón, o a Nolan – e che ha il carattere di provare ad aggiungere qualcosa, se non a livello di contenuti perlomeno attraverso la sua modalità di narrazione. Il Roy McBride di Pitt, infatti, è un astronauta taciturno, introverso, eccellente nel suo lavoro, ma socialmente inadeguato e sofferente: tant’è che ha imparato a barcamenarsi - recitando la parte di quello a posto -  quando ha a che fare coi colleghi e a superare i test psicologici impartiti dal computer cui fa rapporto, descrivendo emozioni che capisce – e che dovrebbe aver sentito – pur non riuscendo mai a provarle direttamente sulla sua pelle. Un papabile soggetto affetto da sindrome di Asperger, sembrerebbe, eppure dietro a questo suo comportamento c’è semplicemente – e semplicemente si fa per dire – la ferita causata dalla scomparsa (e l’abbandono) prematura di un padre che certe pericolosissime onde d’urto - responsabili dei disastri che stanno colpendo anche il pianeta Terra - rischiano adesso di rimettere totalmente in discussione, chiamando lui a partire per un importantissimo viaggio top secret con destinazione Marte e, forse, oltre.

Ad Astra James GrayDiventa perciò una di quelle storie di padri e di figli, a un certo punto, “Ad Astra”, accomunati dalla solitudine e dalla tendenza di fuggire (e di restare?) nello spazio pur di non affrontare da vicino ciò che li attende sulla terra. Una storia fatta quindi di vuoti, di ricordi, di eredità e, soprattutto, di colpe, con la quale Grey anticipa di netto il suo protagonista ritrovando sé stesso e quella confidenza con la grandezza che nelle ultime uscite sembrava averlo abbandonato, o comunque volergli meno bene. Per più di un’ora la sua pellicola è un portento assoluto, non sbaglia una mossa, equilibrando alla perfezione il percorso interiore scavato da Pitt - con voce fuori campo - e quello spettacolare e ambiguo che ci catapulta nelle atmosfere intriganti e pericolose di uno spazio infinito, coloratissimo e del quale è impossibile prevedere natura. Peccato, allora, che quando arriva il turno di sciogliere i nodi, tirare le somme e prepararsi all’atterraggio, il regista diventi improvvisamente meno lucido e vada a perdere quota: sbagliando qualche scelta, sfilacciando il ritmo e cedendo il passo a una retorica superflua che sporca, un pochino, le prospettive e le aspirazioni di una creatura che, fino a quel momento, si era mostrata imponente e ammaliante.

Una creatura che, come sosteneva giustamente Pitt, nonostante certe indecisioni, ha abbastanza forza e valore per lasciare traccia; che, magari, non potrà piazzarsi nelle posizioni più alte di un'ipotetica classifica legata ai film di fantascienza, ma che decisamente merita di stare a ridosso, o in scia, delle migliori della classe.
Box-office stellare, o meno.

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