Tutta Colpa di Freud - La Recensione

Paolo Genovese comincia a dare l'impressione di essere un regista e uno scrittore in perenne difficoltà, che aspira alla realizzazione di lungometraggi senza riuscire ad andare oltre il corto, e così, per ovviare all'intoppo, termina con l'accorpare i vari soggetti appuntati formandone uno più grande. Idoneo. Nei suoi lavori, non a caso, si riscontra sempre una vasta quantità di sottotrame potenzialmente interessanti, che da sole potrebbero - se sviluppate con perizia - fare un minimo di fortuna nella commedia leggera italiana, purtroppo però ciò non pare al momento essere una soluzione e quindi la mediazione è accontentarsi e intravedere spunti interessanti con sviluppi banalissimi.

Come fu per "Immaturi" e per "Immaturi: Il Viaggio" (che tra l'altro conteneva la storiella deliziosa tra Paolo Kessisoglu e Anita Caprioli) allora anche in "Tutta Colpa Di Freud" le sorti della commedia non procedono secondo risvolti definiti e ben sviluppati, e l'accattivante scelta di prendere in esame la psicanalisi vaporizza attraverso un terapeuta deontologicamente scorretto e uno sfondo assai leggero e superficiale, per niente impostato per andare a scavare e a cercare in profondità. E' evidente che a Genovese interessi l'amore, o meglio, a Genovese interessa far sorridere parlando d'amore: amore difficile, amore impossibile, amore confuso, amore a ogni costo, amore non costruibile. E per farlo è disposto a tutto, persino a rinunciare ad una scrittura a tratti brillante per (ri)cadere nel romanticismo scontato (forzato?), in grado tuttavia di dare ai suoi personaggi quel lieto fine che devono e meritano di avere.

Eppure il fallimento più grande di "Tutta Colpa di Freud" non risiede tanto nel disattendere le speranze di poter vedere un Marco Giallini psicologo migliore di Sergio Castellitto in "In Treatment", quanto nel non esser capace neppure di inseguire con brillantezza quei temi a cui il suo regista vuol restare avvinghiato, mancando clamorosamente anche l'appuntamento con la chance di riserva. Del resto, rappresentare la nuova generazione con una scena dove una diciottenne allestisce un soggiorno con la scritta mi piace sulla parete non può essere simbolo di buona scrittura cinematografica, lo stesso vale quando il terapeuta-Giallini, innamorato della moglie di Alessandro Gassmann, sfrutta la crisi di mezza età di quest'ultimo per evitare di accendere nuovamente il desiderio matrimoniale tra lui e lei, creando sedute sarcastiche ma battute ed equivoci di terza mano.

E' stancante ogni volta dover scomodare un mito come Richard Curtis per ricordare ai mestieranti come andrebbero scritte le commedie sentimentali. E oltre ad essere stancante è addirittura doloroso perché abbiamo constatato che chiunque poi provi - da Genovese a Brizzi - a prenderlo come esempio finisce sempre poi o col fraintenderlo o con lo scimmiottarlo. "Tutta Colpa di Freud" è evidente che il cinema di Curtis non se lo sia proprio filato ma l'incapacità di visualizzare la sua meta lo ha portato ugualmente a racimolare esiti sfavorevoli.

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