Child 44: Il Bambino Numero 44 - La Recensione

In paradiso non ci sono omicidi.
E' lo slogan della Russia dominata da Stalin, quella in cui Tom Rob Smith ha deciso di ambientare - prendendosi una licenza Storica - il suo "Child 44: Il Bambino Numero 44", anticipando quindi gli omicidi del serial killer di Rostov, avvenuti più avanti, per aumentare il contrasto dittatoriale di un sistema che pur di imporsi e di non mostrare falle era disposto a mentire agli altri e a sé stesso. A piegarsi allora ci pensa Tom Hardy, agente fidato della polizia segreta sovietica che per amore mette in discussione gli ordini del suo superiore, procurandosi un declassamento e un esilio, con il quale tuttavia avrà l'opportunità di perseverare il suo pseudo-tradimento investigando sulla scomparsa di quei bambini ritrovati tra i boschi, ufficialmente dichiarati morti per incidente, ma evidentemente figli di un unico assassino ancora in circolazione.

C'era un'ossatura piuttosto resistente, quindi, da mettere a disposizione del regista Daniel Espinosa, una di quelle con cui David Fincher solitamente non vede l'ora di entrare in contatto e di fare faville. Ma invece per demerito anche dello sceneggiatore Richard Price, l'adattamento di "Child 44: Il Bambino Numero 44" non si rivela all'altezza delle aspettative, incasinando l'amalgama dei suoi ingredienti e guastando, di conseguenza, un composto che poteva esser montato, se non proprio in maniera deliziosa, quantomeno in maniera piacevole. Lo spaccato storico, che doveva essere più una cornice diventa così cuore pulsante e centro, mentre l'aspetto investigativo, su cui anche il titolo verte interesse, viene prosciugato di spazio, attrattiva e suspance. Gli effetti della pellicola, a questo punto, si fanno tutt'altro che positivi: con una narrazione confusa, a volte improvvisata, e una promessa mancata da inserire a corrente alternata come se facesse parte di una sottotrama secondaria o terziaria, buona esclusivamente per ampliare lo sguardo sui personaggi.
Riceve l'ordine di dar priorità all'oppressione e al terrore politico, dunque, Espinosa, con la camera sempre accesa tra i dialoghi e le stanze in cui in ballo c'è, invisibile, la figura di Stalin da difendere e sostenere. Per chi metteva in discussione il Paradiso propagandato, si aprivano velocemente le porte del vero inferno, quello violento e sanguinario a cui sfuggire era pressoché impossibile. Un concetto ribadito così fortemente da rendere la figura dell'assassino di Rostov superflua e quasi invadente, una perdita di tempo a cui concedere uno spazio non esattamente disponibile, sebbene necessario per chiudere un discorso altrimenti incompiuto.

Smette di sapere persino dove voglia andare a parare allora, intorno alla metà del suo viaggio, la pellicola di Espinosa, rendendosi conto di cominciare a girare a vuoto e non poter più tornare indietro a correggere la sua falsa partenza. Prova a concedersi al thriller in extremis, nei suoi ultimi trenta minuti, agguantandolo di petto, ma senza restituirgli il giusto prestigio e il reale spessore di cui necessitava sin dall'inizio. Mostra, insomma, le carenze di un progetto partorito con scarsa perizia, in cui a parte la bravura incontestabile di Tom Hardy non c'è nulla a cui è possibile aggrapparsi per giustificarne la realizzazione (perché nel proprio paese i russi parlano americano con accento russo?!).
Le ambizioni elevate sbandierate in origine – confermate da un cast che vanta le presenze anche di Vincent Cassel e di Gary Oldman – restano visibili perciò solamente provando a scrutare la costruzione ipotetica che si voleva fornire dai piani alti, tra obiettivi di ampio spessore pienamente non conseguiti.

Del resto, quella di Espinosa è una pellicola così scentrata, disinteressante e sbagliata da rischiare addirittura di estraniare lo spettatore prima ancora che si concludano i suoi lunghissimi centotrentasette minuti. Un fallimento totale, di cui non dispiacerebbe sapere motivo e con cui sarebbe salutare non entrare in contatto.

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