Knight Of Cups - La Recensione

Knight Of Cups Terrence Malick
Negli abissi delle domande e delle risposte che ha trovato e di cui è ancora alla ricerca, Terrence Malik pare proprio essersi perduto. Essersi avvitato in un loop interminabile dal quale, a furia di girare in tondo, sono venuti a mancargli orientamento e lucidità.

O perlomeno questo è ciò che si riscontra davanti a “Knight Of Cups”, opera che per moltissime venature va ad agganciarsi e ad unirsi a “The Tree Of Life” e “To The Wonder”, pur non avendo dalla sua la stessa forza, la stessa originalità e la stessa capacità ad ipnotizzare con l’estetica che erano stati fondamentali, fino a questo momento, nel nuovo percorso cinematografico privo di qualsivoglia scheletro, scrittura lineare e cronologia narrativa intrapreso dal regista. Si ripete allora Malick, trova diverse parole per ribadire quelli che sono gli stessi concetti, e quando non sono gli stessi concetti ad essere ribaditi, al loro posto subentrano comunque gli stessi conflitti: la crisi (religiosa e sentimentale), la sofferenza, il nostro posto nel mondo. Le sue filosofie tuttavia stavolta non attaccano, anzi, vanno a vuoto, praticamente, un po’ come a vuoto va il personaggio di Christian Bale, sceneggiatore di successo, incapace di mantenere un rapporto di coppia stabile e ossessionato dalla convinzione di vivere una vita che non è quella che dovrebbe appartenergli.
Suddiviso in capitoli, o sarebbe meglio dire in carte dei tarocchi, “Knight Of Cups” cerca, dunque, di entrare nel dolore e nei dubbi del suo protagonista tracciandone i contorni attraverso alcuni stralci di vita vissuta, stralci che non obbligatoriamente vengono mostrati con ordine, ma che sono utili, in un modo o nell'altro, per mettere a fuoco ciò che lo attanaglia e che lo ha ridotto a vagare mentalmente privo di pace, insoddisfatto e negato di quella felicità che sembra essergli inafferrabile.

Christian Bale Terrence MalikProblemi con il padre, il fratello, la moglie e le varie altre donne - tutte invidiabili (almeno esteticamente) - con le quali non è mai riuscito a risolvere il suo io, nonostante all'inizio sembrava sempre potessero esisterne le basi e potesse esistere un futuro. Un futuro che Malick per il suo personaggio, probabilmente, non vede (sicuramente non nell'immediato) e non scrive, non concedendoglielo nemmeno formalmente per quel che riguarda l’aspetto stilistico: limitato ad inquadrature e montaggi cloni, gli uni con gli altri, che vanno a rimarcare il circolo vizioso, e senza fine, nel quale Bale è andato ad incastrarsi e con il quale, di riflesso, stanca noi spettatori per insistenza e ridondanza.
Del resto, quello che Malick ci mette davanti agli occhi, è un uomo consumato dal potere, dai vizi e dalle ambizioni corrosive che Hollywood promette e con le quali poi distrugge; un uomo alla ricerca disperata di redenzione e di un nuovo inizio, l’ultimo magari, guidato da un flusso di coscienza a cui si abbandona - trascinando con sé anche le sorti della pellicola - inevitabilmente destinato a sfociare verso quella deriva che ormai, per il regista, rappresenta traguardo, casa e punto di partenza.

Deriva che per noi rappresenta solo sollievo, invece.
Perché se mettersi ad analizzare il senso della vita, la risposta ad esso che risiede, forse, nel vivere il presente e la possibilità che soffrire sia l’unico modo per sentirsi vicini (e simili) a Dio è già qualcosa di molto empirico e complesso, farlo con la scioltezza di una vite incastrata su sé stessa aumenta di gran lunga le difficoltà, la zavorra e la portata dell’impresa.

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