Il mondo è collassato. Disastro ambientale. Venticinque anni dopo, un gruppo di sopravvissuti si trova all'interno di un bunker a vivere quella che dovrebbe essere ormai l'unica quotidianità possibile. Padre, madre, figlio e poi migliore amica di lei, un cuoco e un medico. Sono felici, riconoscenti alla sorte (?) che li ha assistiti. Cantano, addirittura. Finché l'arrivo di una sconosciuta non rischia di far saltare in aria l'intero castello di bugie che fino a quel momento sembrava reggere.
In particolare, quello che è stato raccontato al figlio, troppo piccolo per ricordare gli eventi che lo hanno costretto a crescere in quel luogo chiuso, assurdo. Il padre sta collaborando con lui - ormai giovane adulto - per scrivere una biografia, ma gli aneddoti, i fatti che ricorda, portano con sé qualcosa di cervellotico, di costruito. La verità è che ognuno custodisce un peso enorme, un peso legato fondamentalmente all'apocalisse e al comportamento egoistico - su vari livelli - che ha permesso lori di salvarsi, a scapito di qualcun altro. Volontariamente, deliberatamente. E non parliamo solo di sconosciuti, di pericolosi estranei da tenere a distanza, ma pure di madri, di padri, di figli. E, allora, l'arrivo di questo corpo estraneo, di questa ragazza - anche lei giovane adulta, e anche lei stracolma di sensi di colpa - oltre a sconvolgere il quadro ormonale di un figlio sempre più confuso e perplesso, finisce per sconvolgere pure quello generale, diventa la crepa dentro la quale ogni singolo soggetto, rinchiuso lì da anni, comincia ad aver paura di specchiarsi, di riconoscersi. Una minaccia da allontanare, insomma, da respingere, che potrebbe vanificare una farsa lunga abbastanza da esser quasi riuscita a sostituire la realtà effettiva (e la memoria effettiva) e che ora, all'improvviso, comincia a traballare, a far tornare in gioco demoni, responsabilità, colpe, sentimenti. Un vaso di Pandora talmente gonfio e delicato la cui rottura, forse, è solo questione di tempo.
E questione di tempo è, guarda caso, anche il problema principale di "The End", che porta con sé un'ambizione che definire stratosferica sarebbe un eufemismo: e non tanto per via di una storia che vorrebbe essere un dramma (psicologico), ma contemporaneamente anche un musical, ma soprattutto perché ha la pretesa di volerci intrattenere lo spettatore per quasi due ore e mezza. Una pretesa (folle) che narrativamente gli grava addosso come un macigno, penalizzando ogni potenziale pregio o intuizione. Joshua Oppenheimer - che, ricordiamolo, viene dal documentario - ha le idee chiare su ciò che vuol mettere in scena, dire e sull'opera che intende realizzare, eppure la sensazione principale è che abbia sbagliato mezzo, contesto. Che il teatro sarebbe stato decisamente più adatto per esaltare una pièce come quella di "The End", che comunque, pur nei suoi vari ambienti interscambiabili, resta un lavoro verboso, statico, orientato verso il monologo e la recitazione da proscenio. Caratteristica che trova conferme pure in moltissime delle scelte registiche che vengono prese.
E con un cast come quello che c'era a disposizione - e mi riferisco in particolare a Tilda Swinton e a Michael Shannon - assistere a un abbaglio simile, a una prolissità, a una gestione del ritmo così disarmante e all'inevitabile sgretolamento della pazienza da parte degli spettatori è, probabilmente, una penitenza ingiusta ed eccessiva che nessuno si sarebbe meritato. Nemmeno il pretenziosissimo Oppenheimer che, in fondo, in fondo, voleva solo mettere alla berlina noi esseri umani, bravissimi a convivere e a sopravvivere nell'ipocrisia e nella finzione. Nella tossicità di un quotidiano intorno al quale spesso preferiamo prendere le misure e abituarci, anziché, perdere la testa e il controllo come, forse, dovrebbe essere.
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