Quando "F1" accende i motori, la prima cosa che vediamo è il simbolo della Warner Bros., accompagnato subito dopo da quello della Apple, considerata da molti, ormai, garanzia di qualità in termini di contenuti video. Poi partono le immagini e mentre cominciamo a prendere confidenza con il Sonny Hayes di Brad Pitt (con i suoi demoni, il suo fare e il suo carisma), i titoli di testa scorrono e, se facciamo attenzione, ci rendiamo conto che tra i nomi dei produttori ci sono quelli di Lewis Hamilton, Toto Wolff e Stefano Domenicali. Non proprio gli ultimi arrivati, insomma.
Sembra come se questo "F1" volesse mettere subito nero su bianco che non è il solito blockbuster cieco che intende arruffare più denaro possibile, sfruttando un brand. Qui si intravedono promesse di un lavoro diverso, importante, curato. Qui si intravedono gli indizi di chi aveva voglia sì di arruffare più denaro possibile, sfruttando un brand, ma pure di esaltare il cinema (come mezzo) e gli spettatori (che ancora lo amano). E questa riflessione, che io sto facendo qui a posteriori, in realtà mentre seguivo la storia, continuavo a ripetermela scena dopo scena. Situazione dopo situazione. Trovando ripetute conferme. Perché un altro punto di forza di questa storia è che dimostra che quando un team - a proposito di Formula 1 e dei temi raccontati - lavora in armonia e per uno scopo comune e nobile, i risultati arrivano. Devono arrivare per forza. E infatti non c'è un difetto che sia uno nella pellicola di Joseph Kosinski, al massimo potrei dissentire su una scena e su una scelta, ma per semplice mio gusto personale, perché in realtà, oggettivamente, si potrebbe tranquillamente dire che "F1" sia il blockbuster perfetto, uno di quelli per cui la gente ama andare al cinema, pagare un biglietto ed uscire (stra)soddifsfatta e galvanizzata dall'esperienza.
Pitt è l'uomo giusto per fare il front-man, specie in questo momento altissimo della sua carriera. Lo vediamo riprendere quel personaggio un po' sbruffone e con la faccia da schiaffi che piace molto a Quentin Tarantino, con un'anima cowboy prestata al mondo delle corse. Un pilota solitario, quindi, ma che sa il fatto suo, a cui piace provocare l'avversario e che, molto spesso, tende a "rischiare la giocata", come direbbe qualcuno. Ha superato i cinquanta (e sulla sua vecchiaia Pitt ora comincia a scherzarci parecchio e a farsi prendere in giro) e, nonostante ancora faccia la differenza in qualsiasi gara preveda un volante e quattro ruote, non è mai riuscito a far valere il suo talento concretamente a livello globale, indiscutibile. L'amico Javier Bardem lo invita (e lo implora) a risollevare le sorti della sua scuderia a rischio fallimento, lui tentenna, ma poi ovviamente accetta la sfida. Deve fare da sparring partner, da chioccia in pratica, a un giovane pilota promettente, ma indisciplinato, grezzo, con cui inizialmente sarà solo testa(coda) a testa(coda). Un vecchio in Formula 1, tuttavia, fa rumore e se in pista fa pure scelte scellerate che fanno imbestialire piloti e tecnici, quel rumore aumenta ancora di più.
Ma la verità è che per noi quel rumore si traduce in divertimento puro, assoluto. Un divertimento forsennato, incredibile, senza pause. La pellicola di Kosinski è così intelligente, così consapevole di cosa è e di che cosa vuole essere, che non si limita a "fare spettacolo" e quando si prende le sue pause dall'asfalto, dalle corse e dai ruggiti dei motori, mostra per quanto possibile la profondità dei suoi personaggi - uomini e donne - che stanno tutti aspettando di ricevere un momento di gloria dalla vita. Ognuno ha un passato di cui non va fiero, un fallimento da riscattare, qualcosa da dover dimostrare e l'unica via che hanno per poterci arrivare è cooperare, fare squadra. Nonostante nessuno di loro, tendenzialmente, sappia cosa significhi quella parola. Ed è in questo modo che un film apparentemente dedicato ad un target di persone ben specifico riesce a farsi universale, a coinvolgere qualsiasi tipo di spettatore che, appassionato o meno dello sport in questione, non potrà far altro che farsi lasciar prendere dalle sorti di questo gruppo di underdog e di perdenti milionari, costretti a lottare contro sé stessi, il sistema e i limiti del caso, per agguantare finalmente quel sogno inseguito a massima velocità da una vita intera.
E di fronte a un lavoro così scrupoloso, mastodontico ed eccelso nel suo voler essere intrattenimento puro, ma puro inteso come di qualità assoluta, non si può fare altro che togliersi il cappello. Ammirare l'impegno - rarissimo ormai - e il rispetto mostrato e ringraziare uno ad uno gli esecutori. Kosinski miscela mainstream e western, passato e presente e realizza un prodotto che non solo andrebbe studiato da chiunque abbia intenzione di seguire le sue orme (e quindi fare cinema per il grande pubblico), ma che riesce pure, sottilmente, a suggerire che ciò che è stato (e ciò che siamo stati) non deve essere per forza dimenticato, perché in un presente superficiale come quello che stiamo vivendo è fondamentale avere delle (sagge) linee guida che ci aiutino ad orientarci e a sbandare di meno.
Che sia in pista, o altrove.
Che sia in pista, o altrove.
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