In sostanza, il virus non ha mai lasciato la Gran Bretagna e non è mai arrivato in Europa: cosa che, al contrario, veniva mostrata al termine del secondo (non più ufficiale, a questo punto) capitolo.
Ed è importante, perché in questo modo la Gran Bretagna è ancora in quarantena, una quarantena lunghissima, ormai, che la isola e la lascia praticamente in balia di sé stessa, come una Brexit forzata, capace di replicare le idiosincrasie, le involuzioni e i limiti di quella vera. E non è l’unico grande cambiamento (Storico) che va ad influenzare lo sviluppo di questo “28 Anni Dopo”, il quale è inevitabile non possa non considerare la Pandemia reale che ha colpito il mondo intero e con la quale abbiamo tutti dovuto imparare a fare i conti e a convivere. Così come ha imparato a fare i conti e a convivere col virus e gli infetti (adattati entrambi), la piccola comunità di sopravvissuti presente sull’isola di Lidisfarne. E il pattern adottato si da il caso che sia quello più conservatore e antico possibile: gli uomini (e i bambini pre-adolescenti) provvedono alla caccia e al recupero delle provviste, mentre le donne si occupano dei bambini, della casa e così via. E per il dodicenne Spike del bravissimo Alfie Williams è giunto il momento del battesimo del fuoco: andare sulla terraferma con papà Aaron Taylor-Johnson e mostrare a tutti il suo sangue freddo, uccidendo le prime creature con arco e frecce. E se la madre Jodie Comer è contraria e si oppone, fa niente, tanto la sua salute mentale e fisica è compromessa, ormai, il che non gli dà voce in capitolo.
La scintilla, allora, di questo “28 Anni Dopo” - quella che ha fatto tornare i suoi creatori all’ovile, con l’intenzione di mettere in piedi qualcosa di grosso e di ambizioso - è racchiusa tutta nelle possibilità messe a disposizione dai profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi ventitré anni. Dalle prospettive che questi hanno cominciato ad aprire e, quindi, dall'opportunità di (ri)prendere in mano il genere horror e declinarlo ad altro, alterarlo. Dovessimo classificarlo, infatti, sarebbe opportuno inquadrare questo ritorno più come un coming-of-age, come un film dove gli zombie, o i mostri, insomma, sono tecnicamente accessori, stimoli utili a Boyle e a Garland per sbottonare un discorso che è politico, progressista ed evolutivo. Lo fanno in punta di piedi, mai sfacciatamente, eppure è palese che le loro scelte – narrative, visive – vertono e prediligano quella direzione lì: con uomini che vorrebbero figli meno emotivi e maggiormente coraggiosi e madri che sanno insegnargli, invece, il peso dell’amore, dei sentimenti e della vita. Il sostegno verso una società (più) matriarcale che, rispetto alla controparte, insegna a comprendere e ad esternare, a non respingere le emozioni, a non fare in modo che la paura dell'ignoto influenzi troppo le nostre scelte. Ed è un pensiero che sicuramente rischia di sfociare nell'ipocrisia (in uno dei trend contemporanei), se non fosse per l’entrata in scena del personaggio di Ralph Fiennes: un uomo emarginato dagli uomini, perché misterioso, strano, pazzo (da come è conciato, in effetti, sembra un Ultras Romanista, appena uscito dalla Curva Sud). In realtà è l’unico (uomo), invece, a non aver perduto interesse per la conoscenza, per il passato e per la sua eredità, e quindi figura determinante agli occhi di Spike che, come ideale maschile, portava con sé il modello di un padre a tratti (molto) deludente.
Di cose da dire, ne hanno (accumulate) parecchie, dunque, Boyle e Garland.
E per tirarle fuori dimostrano di non aver alcun problema ad osare, a tradire le aspettative del pubblico, se necessario, portandolo in un territorio, magari, inaspettato, magari difficile da interpretare per via della sua (ancora) vasta ambiguità. Perché lascia un sacco di domande, “28 Anni Dopo”, domande che troveranno risposta nei film successivi (il secondo è pronto, per il terzo si stanno cercando i fondi), domande che si accodano a una visione in bilico tra il tiepido ed il freddino e che, tra alti e bassi, partoriscono un film che va a piazzarsi esattamente nel mezzo della scala.
Laddove non c'è delusione, ma neppure grande entusiasmo.
Di cose da dire, ne hanno (accumulate) parecchie, dunque, Boyle e Garland.
E per tirarle fuori dimostrano di non aver alcun problema ad osare, a tradire le aspettative del pubblico, se necessario, portandolo in un territorio, magari, inaspettato, magari difficile da interpretare per via della sua (ancora) vasta ambiguità. Perché lascia un sacco di domande, “28 Anni Dopo”, domande che troveranno risposta nei film successivi (il secondo è pronto, per il terzo si stanno cercando i fondi), domande che si accodano a una visione in bilico tra il tiepido ed il freddino e che, tra alti e bassi, partoriscono un film che va a piazzarsi esattamente nel mezzo della scala.
Laddove non c'è delusione, ma neppure grande entusiasmo.
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