Barriere - La Recensione

Barriere Denzel Washington
Prima di adattarla per il cinema, Denzel Washington la pièce “Barriere”, di August Wilson, l’aveva portata già a teatro nel 2010, con (quasi) gli stessi attori (vincendo peraltro anche dei premi). Passare dal palcoscenico alla macchina da presa è stato perciò un processo meno complicato del previsto e a dirlo è stato lui in prima persona, perché è vero che a cambiare erano il contesto e il mezzo, ma ormai l’intensità, i ritmi e tutto ciò che concerne l’assimilazione del copione erano belli che digeriti e padroneggiati.
E sullo schermo, questo, si vede perfettamente.

Le interpretazioni degli attori - che stanno alla base praticamente del film di Washington, il quale si è occupato anche della regia - sono a un livello di precisione inaudita: naturali, spontanee, degne di chi ormai il personaggio che interpreta non solo ha imparato a conoscerlo, ma probabilmente a comprenderlo e ad incarnarlo. Lui, Viola Davis e Stephen Henderson giocano di squadra e si passano la palla come un team consolidato, danno al pubblico la possibilità di entrare letteralmente nelle dinamiche dell’epoca che raccontano: ovvero quegli anni '50 in cui a Pittsburg i problemi razziali stavano man mano assottigliandosi, ma si faceva ancora fatica a percepirlo tutti, o quantomeno a crederci per davvero. Cambiamento che “Barriere” analizza attraverso la storia di una famiglia con padre-padrone ferito nel profondo dal razzismo e costretto a riporre i suoi sogni da giocatore di baseball nella concretezza di un lavoro da operatore ecologico, con l’unica speranza che le continue lamentele rivolte alla sua azienda lo portino presto non solo a raccogliere immondizia dai secchioni, ma anche a guidare il furgone (solitamente compito da bianchi). Rimpianti di una vita che riversa sul figlio minore (ma non solo) che, come lui, aspira ad una carriera nel baseball professionistico, obbligandolo a rifiutare un’opportunità interessante in quell'ambito in favore di un lavoro al supermercato che significa serietà e maturazione, non illusione di qualcosa che tanto non può accadere.

Barriere Washington DavisUn modo di pensare, quello del Troy Maxson di Washington, che è umanamente comprensibile, pur nella sua totale erroneità di applicazione. È lui, non a caso, il personaggio più forte della pellicola, quello che muove, che agita, che calma, a cui viene concesso più spessore introspettivo tramite quel modo di spiegarsi, parlare e vivere che sempre ha a che fare con quel baseball che, secondo lui, non ha voluto dargli una chance, respingendolo nonostante il talento. Un’ossessione che lo martella e non gli consente di vedere la reale storia della sua vita, le ragioni totali che circondano il suo destino, quelle che c’entrano magari con la discriminazione, ma non cominciano e finiscono solo con essa. Uno sguardo interessante, sicuramente privo di quei buoni sentimenti e facili conclusioni che spesso opere di questo genere adottano e sfruttano fino all'esaurimento (nostro e loro), peccato che a mancare e a mescolare tutto manchi quel dinamismo cinematografico, in sostanza, mai impiegato. Già, perché “Barriere” sembra essere stato preso dal palco in cui si trovava e posizionato davanti alla macchina da presa privo dell’operazione di rimasticazione che gli spettava; pregno della sua verbosità, della sua essenza, della sua potenza scenica, ma piuttosto scarno delle virtù capaci di far funzionare a dovere l’insieme oltre le radici da cui è nato e cresciuto.

E paga questo e nient’altro, sostanzialmente, Washington, l’idea di voler toccare il meno possibile ciò che, magari, sentiva potesse offrirgli certezze inequivocabili in partenza. Possiamo capirlo, e forse se i luoghi d’azione di “Barriere” fossero stati più vasti non sarebbe neppure stata una cattiva intuizione, il problema è che ruotando costantemente intorno allo stesso campo d’azione, a lungo andare, i centoquaranta minuti di minutaggio e i troppi dialoghi si fanno sentire, così come si fa sentire l’incomodo di non essere a teatro, ma in un altro posto che meno aderisce a quel mood.
Un posto in cui “Barriere”, per dirla con un gioco di parole, resta un tantino impigliato.

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