Aragoste A Manhattan - La Recensione

Aragoste A Manhattan Poster

Ve la ricordate la notizia che iniziò a circolare qualche settimana fa? Quella in cui si diceva che la Casa Bianca stesse valutando l'ipotesi di organizzare un reality show che avrebbe visto la partecipazione di soli migranti tra i concorrenti e al cui vincitore spettava il diritto alla cittadinanza americana?
Beh, una prima bozza del progetto (folle) potrebbe essere quella allestita dal regista e autore messicano (guarda un po') Alonso Ruizpalacios nel suo "La Cocina".

Lo scrivo in originale, il titolo, perché si intuisce sicuramente meglio che la cucina, appunto, è il campo di battaglia, la location principale, e poi perché la traduzione italiana, "Aragoste A Manhattan", sembra appartenere più ad un film-fake di Woody Allen (colpa del bianco e nero?) che alla storia raccontata. Comunque, Ruizpalacios ci porta dentro un mondo che sicuramente non conosciamo, il mondo dei migranti messicani, ma non solo, che giunti in America, alla ricerca del sogno e della felicità, non hanno alcun problema a partire dal basso - dallo scantinato di un ristorante, in questo caso - per provare a costruirsi un futuro, un'identità. E questo ristorante, nei pressi di Times Square, è praticamente l'Eden per loro: perché assume facilmente, senza obbligo di visto, né padronanza della lingua, basta un colloquio breve, oppure fare il nome di chi è già parte del team. Somiglia a un luogo nascosto, segreto, perlomeno per chi poi in quel ristorante ci andrà a mangiare e non immagina l'inferno in corso che c'è al piano inferiore, dove quei piatti - un po' da fast food, se vogliamo - vengono preparati in fretta e furia tra insulti, liti, discussioni, battute, sprazzi di vita e spruzzi di birra. Tutti si danno da fare, tutti obbediscono agli ordini dei superiori, del padrone, perché col sudore della fronte sanno - o meglio dire sperano - che prima o poi riusciranno a guadagnarsi (a vincere) la tanto agognata green card.

Aragoste A Manhattan Film

E' il premio finale, quello definitivo, attorno al quale vengono narrate leggende, incubi, e cuciti attorno aspettative, sogni, progetti di vita. Come quello che Pedro vorrebbe costruire con Julia, rimasta incinta e convintissima (oppure no) di voler abortire. Lui la scongiura di ripensarci, ma nel frattempo le ha trovato gli 800 dollari che le servono per interrompere la gravidanza: somma che, il caso vuole, è la stessa sparita dall'incasso del locale la sera prima. E, allora, "La Cocina" diventa una vera e propria arena, con gli ordini che vanno e vengono, i cuochi che se le promettono, chi è distratto dal dover prendere decisioni fondamentali e chi, intanto, indaga e interroga per indentificare il ladro di turno. Sembra Hell's Kitchen con Carlo Cracco, senza censura televisiva e senza pietà, con Trump nel backstage che incita i produttori ad aumentare gli handicap, gli intrighi, la posta in gioco. E la posta in gioco, forse, è solo un miraggio, l'illusione di cui ha bisogno la macchina per continuare a carburare, a capitalizzare, a fatturare. E l'energia, come al solito, non può che arrivare da queste poveri corpi, vite forse non proprio innocenti, ma perché disperate, spezzate, rassegnate.

Dietro lo spettacolo atroce, e per questo anche struggente, melodrammatico, divertente e coinvolgente, messo in scena da Ruizpalacios, infatti, c'è una realtà a cui molto spesso si guarda con disinteresse, con sufficienza e distrazione. Una realtà sulla quale si tende al massimo a speculare, a puntare il dito contro, non provando minimamente a studiarla e a metterci il naso. "La Cocina", invece, il naso ci costringe a mettercelo, ci fa sentire gli odori, i sapori, ci fa assaporare il gusto di questo mondo sepolto, sul quale chi ha il potere guadagna e chi non ce l'ha è destinato a sopperire, ad abbattersi, nella speranza che una luce, un giorno, lo illumini all'improvviso per, chissà...portarlo in salvo?
Lo scopriremo nella prossima puntata, grazie al vostro televoto.

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