Happy End - La Recensione

Happy End Michael Haneke
E’ racchiuso tutto nei due prologhi d’apertura il nuovo film di Michael Haneke: nel primo fatto con lo smartphone in verticale, dove una bambina (che vedremo più avanti) all’inizio riprende la madre in bagno intenta a prepararsi per andare a letto e dopo - con un brusco stacco di montaggio - mostra la reazione del suo criceto inconsapevole di aver ingerito le pillole anti-depressive, rubate sempre da lei stessa dalla scorta della sua genitrice; e nel secondo dove vediamo franare - stavolta a tutto schermo, in panoramica - parte di un cantiere di lavoro con vittima a seguito.
Due scene nelle quali non proviamo (per forza di cose) alcuna empatia, eppure ci è impossibile scollare gli occhi fuori dallo schermo.

Questo perché a Haneke gli si può (e, a volte, gli si deve) dire di tutto, tranne che non sia capace a girare, a riconoscere la maniera migliore per raccontare una storia: che per lui molto spesso significa posizionarsi alla giusta distanza, avvicinando lo sguardo solo se (gli) serve e se ne vale la pena, scegliendo pianisequenza, o comunque dei take molto lunghi e con rarissimi tagli. Il problema del suo ultimo film però è che, pur lasciandoti entrare, introducendo frammentariamente, ma in modo integro, tutti i protagonisti di questa famiglia alto-borghese piena di scheletri nell’armadio, ipocrisie, problemi personali e chi più ne ha, più ne metta, non riesce mai a costruire davvero un impianto narrativo che sappia coinvolgere lo spettatore a livello emotivo, a scaldarlo, a creare con lui un principio di legame, andando oltre, appunto, quel fascino voyeuristico colmo di distacco nel quale si finisce per non essere interessati praticamente a nulla, qualsiasi cosa accada. Di buono c’è che la vena ricattatoria che, di solito, il regista tende a inserire nelle sue storie, in “Happy End” viene a mancare, insieme però anche all’originalità e a quella voglia di provocare o fuorviare che hanno contraddistinto e mosso il suo cinema nel bene come nel male.

Happy End Film CannesPerché la verità è che Haneke qui pare volersi concedere più a qualcosa di simile a un esercizio di stile: non a caso cita sé stesso, si strizza l’occhio allo specchio (il personaggio di Jean-Louis Trintignant potrebbe essere lo stesso di “Amour”, ma con un seguito diverso), aggrappandosi debolmente all’attualità dei migranti (gli eventi si svolgono a Calais) e alla rappresentazione di una società indirizzata verso il baratro se non addirittura verso il patibolo. Tira fuori un dramma grottesco, che forse in determinati frangenti ostenta persino una timida volontà a farsi commedia, strappando risate per il rotto della cuffia, in un paio di occasioni, ma risultando assai più rodato in quegli spaccati nei quali a primeggiare sono il mistero, l’inquietudine e il dolore. Quei temi, insomma, che gli sono più famigliari e che sa maneggiare meglio, e che per riconoscenza probabilmente gli permettono di salvare la faccia, portando a casa un film che altrimenti avrebbe potuto sgretolarsi lentamente e non arrivare vivo al traguardo.

Per sua fortuna, invece, vivo al traguardo "Happy End" ci arriva eccome, magari un po' cianotico in volto e un po' stanchino, ma abbastanza convinto dei propri mezzi tecnici e protetto da un cast incredibile che non commette pecche neppure a distrarlo. Del resto a quelle ci pensa la pigrizia di Haneke, che dall'alto della sua esperienza e da furbo fuoriclasse qual è, spera ancora una volta di farla franca e di incartarla al suo pubblico (a gran parte, almeno) tramite un colpo di coda che, a dirla tutta, nel caso specifico lascia un tantino il tempo che trova.

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