Il Processo Ai Chicago 7 - La Recensione

Il Processo Ai Chicago 7 Poster
Non c’erano dubbi che il racconto del processo ai Chicago 7 si adattasse perfettamente alle caratteristiche di uno sceneggiatore (immenso) come Aaron Sorkin. Bastava gettare uno sguardo alla sua filmografia per capire che sarebbe stato impossibile trovare su piazza autore migliore al quale affidare una pagina così importante, ma allo stesso tempo così attuale (e imbarazzante), della Storia (recente) americana. Nessuno meglio di lui, del resto, è in grado di far coesistere realtà dei fatti, percentuale di finzione e romanticismo verso le potenzialità infinite di una nazione che continua, troppo spesso e troppo facilmente, a perdersi dentro un bicchiere d’acqua. 

Se c’era un nodo da sciogliere, allora, quel nodo era legato alla regia: che inizialmente doveva essere affidata a Steven Spielberg, ma che poi – tornata vacante causa forfait di quest’ultimo – lo stesso Sorkin ha deciso di raccogliere, probabilmente, per non vederla finire in mano al primo che sarebbe passato. Per lui era la seconda volta dietro la macchina da presa, dopo l’esordio di “Molly’s Game” che lo aveva visto andare un po’ in difficoltà, specialmente per via di una voce fuori campo abbondante e complicata da gestire. Una grana che ne “Il Processo Ai Chicago 7” – nel quale la sua regia si fa pregevole ed elegante – viene messa totalmente da parte, scartata, a fronte di un racconto basato, appunto, sull'udienza del titolo e dalla quale ci stacchiamo solamente per addentrarci in alcuni flashback e per assistere alle pause – notturne e non – nelle quali si cerca di tirare delle somme, tendenzialmente poco promettenti. Siamo nell'era Nixon, infatti, e un gruppo di attivisti contrari alla Guerra del Vietnam – che ha deciso di protestare pacificamente contro di essa – è accusato di aver provocato la scintilla che ha portato a dei scontri violentissimi con la polizia. Scontri che, secondo la loro versione dei fatti, la polizia avrebbe deliberatamente – per via di ordini giunti dall'alto – voluto causare. 

Il Processo Ai Chicago 7 Sorkin
Siamo in un processo politico!”, dice l’Abbie Hoffman di un fantastico Sacha Baron Cohen
Non esistono i processi politici, esistono solamente processi penali e processi civili!”, gli risponde il suo avvocato, interpretato da Mark Rylance
Affermazione sulla quale a poco a poco però, guardando i comportamenti e le azioni del giudice – un Frank Langella talmente bravo da voler prendere a schiaffi – in sala, sarà costretto a ricredersi e a considerare tutt'altro che priva di significato. Perché l’America che ha visto questi uomini essere accusati di violenza, privandoli di ogni umanità e commettendo ingiustizie nei loro confronti, non è poi molto diversa da quella che oggi – in mano a Trump – continua ad abusare del proprio potere e a ledere i diritti e la libertà dei suoi cittadini. E Sorkin non fa nulla per limitare questo genere di paragone, tutt'altro: non si dimentica nemmeno di inserire una scena dove a uno degli imputati – il rappresentante delle Pantere Nere – viene riservato un trattamento a dir poco particolare (e palesemente assurdo) per aver preso posizione di fronte all'ennesimo rifiuto ricevuto alla richiesta di proferire parola (una scena gigantesca, specie per come viene risolta).

Lo specchio di quei tempi, di quel 1968, quindi non fa altro che rimandarci al nostro presente, alla distopia che stiamo vivendo. Sorkin ne è cosciente più di tutti e nella sua pellicola cerca, per questo motivo, di inserire legittimi sentimentalismi e legittimi ideali, sperando di rinfrescarci la memoria sulle misure del giusto tiro e su come fare per andare a metterle in pratica. Il suo è un gesto stracolmo d’amore: amore incondizionato per un paese che non sopporta di vedere custodito in mani sbagliate; per un paese diviso; un paese che potenzialmente avrebbe la forza di poter cambiare il mondo, sebbene al momento dovrebbe pensare prima a cambiare sé stesso.
Per non rischiare ancora di dover chiedere scusa in ritardo.

Trailer:

Commenti