E quindi non bastava, non era sufficiente a esaurire le potenzialità e la portata di un evento (di un momento cruciale) che ha contribuito a cambiare per sempre la Storia del nostro paese.
E così, Marco Bellocchio, a distanza di diciannove anni, decide di tornare lì; di raccontare ancora il rapimento Aldo Moro, avvalendosi però di uno sguardo nuovo, più ampio, che moltiplica la complessità e le riflessioni (da fare) legate a cause e conseguenze di quella tragedia. Lo fa prendendosi assai più tempo – 6 episodi da circa 50 minuti l’uno, o due film da circa 2 ore e mezza a testa – e avvicinandosi a coloro che, secondo lui, sono i (veri) responsabili principali, tanto quanto gli esecutori incaricati a premere il grilletto. La morte di Moro è stato il fallimento della politica italiana, della Chiesa e dell’Italia intera. La conseguenza annunciata a un immobilismo, a un’approssimazione e a una paura (di cambiamento) che, fatalmente, pur mettendo in rilievo l’incompetenza di chi avrebbe dovuto farne fronte, lascia il dubbio ipotetico di una strategia – magari non pianificata, ma – accarezzata e cavalcata appositamente in corso d’opera. Ma in “Esterno Notte”, a venir fuori, non è tanto (o solo) questo, quanto il privato e l’umanità di chi con quella scelta, con quell’immobilismo e con quella strategia, d’accordo o meno, doveva farci i conti. E doveva farceli continuamente. Ogni giorno. Da Francesco Cossiga a Papa Paolo VI, passando alle Brigate Rosse, fino alla spaesata e combattuta Eleonora Moro.
Tutti (già) consapevoli, tutti (già) spaventati, tutti (già) disperati.
Una vicenda grottesca.
Definisce con queste parole, l’Aldo Moro di un perfetto Fabrizio Gifuni, il suo rapimento e la sua prigionia: mentre si confessa davanti a un prete rapito (temporaneamente) e portato nella sua cella per l’occasione. Lui, Presidente di un partito il cui punto di forza è la mediazione, condannato a morire perché all’improvviso nessuno dei suoi uomini è disposto a mediare. Lampi di rabbia e di ironia che anticipano il faccia a faccia col suo destino (che ha intuito, ovviamente), e nei quali Bellocchio si prende la licenza poetica di immaginarselo ormai rassegnato, per niente pronto a morire e con un sentimento d'odio del tutto umano – ma del quale comunque ha vergogna – nutrito verso i suoi fidati collaboratori e compagni politici. L’apice, probabilmente, di una storia che di parentesi come questa ha il privilegio e l’intelligenza di crearsene più del previsto, realizzando scene (oniriche) potentissime – a volte anche molto semplici, se vogliamo – in grado di facilitare la lettura di uno stato emotivo, di un carattere o della personalità di un personaggio (vedi Andreotti e le caramelle, o la schiettezza verbale di una centratissima Margherita Buy).
Perché se è vero che “Esterno Notte” non faccia sconti, anzi, prenda nettissime posizioni nei confronti di ognuna delle anime poste al centro, è altrettanto vero che Bellocchio non è assolutamente interessato a puntare il dito o ad emettere sentenze. La sua è più che altro una (meravigliosa) trasposizione orientata a evidenziare quanto la morte di Moro, in questo paese, sia un caso “ancora aperto” e ancora spaventoso; quanto sia stata necessaria per (quel)la politica-tutta e, forse, anche quanto certi atteggiamenti continuino ad essere perpetrati e adoperati ancora oggi.
Non nella violenza e nel terrorismo, per fortuna, ma nella filosofia di un cambiamento, visto come unica soluzione per fare in modo che tutto resti uguale.
Non nella violenza e nel terrorismo, per fortuna, ma nella filosofia di un cambiamento, visto come unica soluzione per fare in modo che tutto resti uguale.
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